Antico quanto?

Da Picasso a Duchamp, da De Chirico a Pistoletto, il Novecento in mostra al Mar per una domanda storiografica

Alberta Fabbri - Conservatrice Mar di Ravenna

Antico quanto? o, per raccogliere la domanda di Giorgio Agamben nella riflessione su cos'è il contemporaneo, "contemporaneo a chi?".
La questione è tutta storiografica ed entra nel vivo delle vicende artistiche del Novecento per fare il punto sul rapporto tra memoria e sperimentazione in un tempo in cui lo statuto dell'opera è continuamente mobile. La storia nel suo dispiegarsi è sotto i nostri occhi, ma rimarrebbe senza ragionevoli strumenti chi si attendesse dalle scienze storiche un supporto alla comprensione dei fatti su cui Claudio Spadoni ci invita a riflettere. Perché il percorso ha un punto di partenza, «Quel non so che di antico e moderno» che ci posiziona sul richiamo della tradizione avvertito da Carlo Carrà con l'esaurirsi dell'avventura futurista, e un punto di arrivo, la Venere degli stracci di Pistoletto, ma al suo interno procede per salti, torna indietro, opera per connessioni, verifica le declinazioni di un archetipo al variare dell'attitudine estetica. In una parola, indaga la vita delle forme.
Che la questione sia storiografica si comprende sin dalle considerazioni in esergo del curatore. A partire dal riferimento ad Harold Rosenberg che nel felice ossimoro della «tradizione del nuovo» indica il paradigma delle dinamiche che hanno caratterizzato il secolo scorso alla data del 1964.  L'imperativo del nuovo, secondo il critico americano, si impone come ossessione dell'innovazione permanente fino a sconfinare nel conformismo del "purché nuovo".
E allora questo rifluire del passato che non passa? Questo bussare della memoria per essere abitata ancora una volta? Sia essa la Venere di Milo che passa dalle mani alchemiche di Man Ray, Salvador Dalì, Yves Klein, o Pistoletto per la "trasmutazione". O la sua succedanea pittorica, la Venere di Botticelli che si riaffaccia nella stereotipia serigrafica di Andy Wharol. E che dire poi di Paolini, alle prese con il tema della mimesi, se il calco di Hermes diventa il riflesso dell'identico lungo il fascio visivo teso fra le estremità di due sponde temporali?
Ecco dunque prendere forma un altro tema, quello del tempo nel quale si dipana una contemporaneità diacronica che ci fa tornare a fatti accaduti non qui, non ora, ma di cui si avverte la necessità della sollecitazione.
È a questo tempo - il tempo della storia -, che la mostra fa riferimento chiamando in causa più che la nostalgia del classico come canone, la risacca della memoria per come si deposita.
Il percorso, articolato per sezioni, si apre con Il vecchio e il nuovo mondo, di Savinio, palinsesto per riabilitare il passato che i futuristi avevano condannato come impedimento alla gioiosa vertigine del nuovo. Con De Chirico l'allocuzione alla storia è la frontiera dell'avanguardia, la Metafisica che in "Valori Plastici" assume vocazione antifuturista. Per Carrà il richiamo del Trecento, e di una condizione aurorale, è concomitante all'uscita del Gusto dei Primitivi (1926) di Lionello Venturi. Che l'esperienza di Novecento, il gruppo raccolto intorno a Margherita Sarfatti, avesse fatto del rappel à l'ordre la propria bandiera è cosa nota.
Riabilitare la storia significava anche riabilitare linguaggi e sintassi. Ecco allora la seconda sezione con la ripresa dei generi, il paesaggio, la natura morta, il ritratto. A confrontarsi sono artisti di diversa estrazione, e generazioni diverse, in un crescendo che culmina nei ritratti, indimenticabili, di Picasso e Fontana.
E al Barocco guarda Fontana nella selezionatissima plastica per bozzetti di squisita rapidità, come Leoncillo, con la sua leggendaria Arpia, e non solo.
Non manca la riflessione intorno a mito e sacro, nella trasversalità del discorso simbolico, con Vedova, Dalì e Chia. Mentre alla sirena dell'archeologia non hanno saputo resistere artisti come Jodice e Christo, Adami, Schifano, Ceroli, Festa e Angeli, fino ai protagonisti della Transavanguardia, Paladino su tutti.
Imprescindibile poi il gesto di chi ha fatto del prelievo un'intenzione estetica per ribaltare il tavolo su cosa debba intendersi per arte. La Gioconda con i baffi di Duchamp, un punto di non ritorno. Intenso il compianto di Bill Viola d'après i testi cinquecenteschi. Vettor Pisani trasforma in operazione le citazioni di Moreau e Böcklin, ma la domanda è: cosa stiamo traghettando? Un'arca, verrebbe da dire, con il necessario viatico per guardare in faccia il futuro attrezzati di uno sguardo integrato di memoria e visione.
Ma un'altra connessione ci attende al termine, quella con le mostre dedicate a due delle voci più autorevoli della storia dell'arte italiana, Roberto Longhi e Francesco Arcangeli, e alla loro riflessione sul moderno. Nella continuità inscritta dentro la vita dell'arte.

Notizie dal Sistema Museale della Provincia di Ravenna - pag. 19 [2016 - N.55]

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