Nel segno di Nazzareno Pisauri

Claudio Leombroni

Questo primo numero dell'anno esce purtroppo a pochi giorni di distanza dalla morte di Nazzareno Pisauri, avvenuta il 23 marzo scorso, e l'editoriale, un po' più lungo del solito, è a lui dedicato. Ai colleghi più giovani questo nome forse dice poco o nulla in un tempo in cui nella nostra professione abbondano i professori e gli aspiranti accademici, i predicatori o i futurologi e sono quasi scomparsi i maestri.
Eppure a lui gli istituti della cultura emiliano-romagnoli devono molto. A lui, Soprintendente ai Beni librari negli anni Ottanta e direttore dell'IBC negli anni Novanta, devono molto sia la Rete bibliotecaria romagnola, sia il Sistema museale, perché fu grazie a Nazzareno che trovarono posto nell'organizzazione bibliotecaria e museale della Regione. A lui in particolare si deve la dimensione romagnola della Rete bibliotecaria e a lui deve molto SBN stesso, perché fu grazie all'alleanza di ferro con Angela Vinay che il Servizio Bibliotecario Nazionale costruì la propria architettura policentrica fondata sull'intesa fra Stato e Regioni. A lui devono molto anche bibliotecari, archivisti e 'museanti' della nostra Regione; deve molto anche chi scrive, che, oltre a molti debiti culturali e professionali, nel dicembre 1995 fu nominato nel Comitato nazionale di gestione del SBN su sua indicazione.
L'eredità culturale o 'politico-culturale' di Nazzareno Pisauri è ancora più cospicua, anche nei suoi profili di inattualità e ancorché oggi sostanzialmente dimenticata da una biblioteconomia nostrana (o da una archivistica o da una museologia) impregnata di technicalities apparentemente neutrali e povera di valori e di visione, povera di memoria o, come diceva Crocetti, di tradizione. Consiglio in proposito ai più giovani di leggere e rileggere "Leggere è uguale per tutti", un intervento che Pisauri fece al convegno "Leggi in biblioteca" del 1997 e che condensa in poche pagine il suo pensiero critico, insofferente dei luoghi comuni, di bibliotecario consapevolmente militante; perché tale era Nazzareno al di là del suo ruolo di direttore dell'IBC o forse in ragione di tale ruolo, interpretato nel solco di quella altissima dimensione culturale e professionale inaugurata da Giuseppe Guglielmi. In quelle pagine, oltre alla sua straordinaria passione civile, alla sua lucida capacità di interpretare i fenomeni sociali e culturali sottostanti e circostanti i nostri istituti, ma anche di policy making - che non raramente lo pose in contrasto con la politica - emerge con nettezza anche la sua intelligenza visionaria, capace di immaginare molto prima di Lankes o dei nostrani convegni delle Stelline, i tratti fondamentali della biblioteca nel nuovo mondo delle reti: il dover diventare il luogo della comunicazione, il luogo "in cui chi ha qualcosa da dire lo dice", "il megafono di chi non ha altro diritto di parola, di chi ha qualcosa da dire e ha bisogno di un luogo in cui dirlo insieme ad altri".
Quella lucidissima capacità di policy making unita al suo spessore culturale e professionale - dote quest'ultima che gli dovrà essere riconosciuta in sede di interpretazione storica della sua figura e del suo operato - gli consentì di disegnare una organizzazione regionale dei servizi culturali inclusiva dei soggetti privati, coinvolti sulla base dei servizi effettivamente resi alla comunità e non delle logiche burocratiche del contributo, di utilizzare l'automazione per facilitare l'accesso ai servizi culturali pubblici e per rendere possibili nessi e collegamenti fra i diversi domini. Una concezione alta, orgogliosa del servizio pubblico era alla base non solo della sua concezione degli istituti, ma anche della tutela e della fruizione del patrimonio inteso nella sua interezza, nella grande varietà novecentesca di registri, di stili, di supporti, di contaminazioni. Questa concezione del servizio e della pianificazione del servizio, fortemente embricata con la straordinaria elaborazione culturale dell'IBC di Emiliani, di Gambi e di Guglielmi, gli farà immaginare e realizzare progetti MAB prima di altri in Italia, gli farà ricercare i collegamenti culturali fra biblioteche, archivi e musei nella consapevolezza che la complessità del nostro patrimonio culturale, e in particolare del nostro Novecento e dei suoi fondi compositi, può essere autenticamente interpretata, goduta e fruita solo attraverso tale complessità di nessi e di complicità disciplinari e attraverso sistemi informativi che ne agevolino l'istituzione o l'esplorazione. Da questo punto di vista è ancora fondamentale la lettura di "Lussuria e devozione", forse il suo scritto più bello, o del suo intervento al convegno "Archivi e voci d'autorità" in cui il superamento delle distinzioni disciplinari viene concepito come l'esito più profondo del Novecento, che ha modificato radicalmente valore e significato primario dei beni culturali su cui esercitiamo i nostri rispettivi mestieri, quello del bibliotecario, dell'archivista o del 'museante'.
Nella traduzione di questi profili culturali - complessivamente ascrivibili alla nozione eticamente impegnativa di 'democratizzazione della cultura', condivisa con gli esponenti migliori della sua generazione - come pure del ruolo degli istituti culturali in politiche pubbliche, Nazzareno si avvalse della cooperazione e del regionalismo; un regionalismo autentico il suo, forse un regionalismo, coincidente con l'idea di un nuovo modo di governare, che Giorgio Pastori vedeva in crisi già dieci anni dopo l'istituzione delle Regioni. Per Pisauri cooperazione, regionalismo, autonomie locali e territorio, erano parte di un lessico fortemente anticentralista, di una cultura delle autonomie che si era affermata soprattutto fra i bibliotecari nelle battaglie culturali degli anni Sessanta e Settanta. Oggi, di fronte al neo-centralismo statale e alla crisi della cultura regionalista delle Regioni, queste sue posizioni sembrano inattuali. Ma è da qui che dobbiamo ripartire, perché il nostro Paese è storicamente caratterizzato dal policentrismo culturale. Questa è la nostra ricchezza ed è una ricchezza che può essere valorizzata solo dall'intero Paese, non da un Ministero che è stato utilizzato spesso come metafora di una politica culturale senza che quest'ultima ci fosse o fosse condivisa.
Negli ultimi tempi mi è capitato di evocare Nazzareno in diverse occasioni: l'ho fatto all'assemblea dei poli SBN, alla conferenza romana dell'ICOM del mese di giugno dello scorso e al secondo congresso nazionale MAB di qualche mese fa. In queste occasioni ho ricordato che l'assetto neocentralista del sistema museale nazionale - che tale è anche a volerne apprezzare il carattere di rivoluzione dall'alto - e la sottrazione alla Regioni della tutela dei beni librari avrebbero suscitato la sua indignazione pubblica. Nazzareno avrebbe parlato di revanchismo centralista o di centralismo d'accatto perché la sua generazione aveva bene in mente il fallimento delle politiche statali prima delle istituzioni delle Regioni. Si dirà che oggi sono altri tempi, anche se sono passati pochi anni da quando tutti si professavano federalisti. Io credo invece che dobbiamo ripartire dal magistero professionale e culturale di Nazzareno. Solo così potremmo dire - con Goethe - di esserci riguadagnati ciò che avevamo ereditato dai nostri padri.


Editoriale - pag. 3 [2016 - N.55]

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