Sostenibilità cognitiva

Nella deriva delle grandi mostre si rende necessario che i musei italiani ritrovino la forza e la capacità dialogica dell'offerta culturale

Michele Trimarchi - Docente di Economia della Cultura, Università di Bologna

Come definire un museo nel 2015? Non è soltanto l'anno dell'Expo, del negoziato sul Grexit, dello sfilacciamento dei partiti, del concorsone per direttori dei musei statali. Quando le acque si saranno calmate (o saranno passate a nuove forme di turbolenza) sarà ricordato come l'anno in cui si ridiscute il diritto della proprietà intellettuale, si comincia ad accettare un mondo senza banconote, si esce lentamente dalla sbornia blockbuster degli impressionisti usati per épater le bourgeois della provincia italiana. Alcune cose non saranno più come prima.
Aperto da poco il MUSE, un hub multidimensionale in cui natura, scienza e tecnologia provano a raccontare una storia fondata sulla curiosità; aperta da pochissimo la Fondazione Prada, una lezione narrativa e critica che chiede complicità a un pubblico eterogeneo ma accomunato dal desiderio di meravigliarsi consapevolmente. In più di una città i musei provano a ripensare se stessi, quanto meno imbastendo un tentativo di dialogo con la società contemporanea, che ogni mattina vede e apprezza milioni di colori sul proprio desktop, naviga ipertestualmente tra aree disciplinari fino a poco tempo fa estranee o addirittura ostili, prova un fastidio crescente per le etichette che ingabbiano quel sistema magmatico che chiamiamo cultura, spesso equivocandolo per mera erudizione.
Pur senza scomodare Valéry e Marinetti (e chissà quanti altri) è tempo di riconoscere che i musei rischiano di esaurire la propria motivazione di fondo. Non è per caso che questa fase di incertezza e nostalgia coincida con gli anni nei quali si revoca in dubbio lo stesso valore dello Stato-nazione. Non sono i barbari a minacciare la civiltà; al contrario, è il paradigma nel quale siamo cresciuti a risultare obsoleto e privo di significato.
Di errori ne abbiamo commessi anche troppi; tuttora continuiamo a misurare il valore dei musei in base al numero di visitatori, tipico riflesso dell'ansia da prestazione che continua senza motivo ad attanagliare la cultura: il confronto dimensionale non dovrebbe avere alcuna cittadinanza nel sistema dell'arte. Attaccati alla credenza che il pubblico della cultura sia omogeneo e compatto continuiamo a mantenere criteri espositivi ottocenteschi e a inzeppare le ultime sale di effetti speciali e gadget per turisti un po' allocchi, ignorando che l'80% delle cose acquistate dai visitatori contengono conoscenza critica e non intrattenimento superficiale (la società è sempre più avanti delle analisi che se ne fanno).
L'incapacità di accorgersi che le cose evolvono, e che una raccolta di opere d'arte dovrebbe preoccuparsi di risultare intelligibile quanto meno sul piano percettivo, ha generato la fiumana delle grandi mostre, il cui intendimento mondano è stato gonfiato dalla stampa e ogni tanto dagli stessi professionisti della cultura che volevano misurare il proprio valore in numero di pagine, incassi del botteghino e pullman nei parcheggi. Come il loggionista gode per l'acuto e ignora il fraseggio, la stagione delle grandi mostre di tutto si è occupata meno che della forza dialogica delle opere esposte. Come tutti i canti del cigno - che in questo periodo stanno abbondando - la deriva degli 'eventi' (parola del tutto priva di significato) ha finito per incancrenire una fissità tematica e disciplinare che sempre meno rappresenta una società complessa, e una domanda culturale che in modo del tutto coerente chiede solo di poter migrare intensamente tra aree, strati e linguaggi, confermando che la cultura è lo snodo di fondo per esplorare in profondità il nostro eco-sistema, per esprimere la nostra weltanschauung, per comprendere i nostri desideri.
È tempo di accorgerci che le Muse stanno sempre più strette nelle maglie rigide che la borghesia manifatturiera ha costruito intorno a loro, e che Mnemosyne ha scelto, con grande acutezza, di volgere lo sguardo verso il futuro. Non più custode di un passato da tenere a mente in modo un po' meccanico con l'illusione di salvare l'umanità, la madre delle Muse guarda avanti, e chiede con forza che i Musei costruiscano la propria offerta in modo che essa stessa valga la memoria del futuro. Senza elaborazioni critiche, ragionamenti, emozioni e discussioni anche vivaci lasceremo alle generazioni future soltanto oggetti dei quali il significato pregnante e dinamico rischia di essere via via dimenticato. Il punto dolente sul quale è il caso di riflettere per estrarre il valore dalla cultura è quella che potremmo definire 'sostenibilità cognitiva': se perdiamo di vista la capacità dialogica dell'offerta culturale la priviamo delle stesse ragioni della sua esistenza, e poco a poco verranno meno le motivazioni a sostenerne l'esistenza, la diffusione, la circolazione.
La questione gira intorno alla necessità di elaborare chiavi di lettura, opzioni interpretative, stimoli critici. Il neofita è un esperto del futuro, ma qualcuno dovrà pur occuparsene in modo maieutico e costruttivo: non serve a granché ingozzarlo di nozioni aneddotiche e di dati da quiz televisivo; è invece fondamentale coinvolgerlo in un dialogo indefinito che lo incoraggi a costruire la propria cassetta degli attrezzi in cui l'apprezzamento e l'apprendimento camminano insieme. Questa piccola ma importante rivoluzione passa attraverso l'abbandono delle etichette e dei compartimenti stagni nei quali la cultura è stata confinata per troppo tempo. E richiede che nessuno si aspetti il nostro viaggio nel tempo per farci tornare coevi delle opere che ammiriamo; al contrario, ci aspettiamo che l'offerta dei Musei renda esplicite e chiare le molteplici evocazioni che molte opere d'arte hanno generato nei secoli che ci separano da loro. Posso ancora guardare la Gioconda senza ricordare immediatamente Duchamp e Basquiat, le cento pubblicità che ne abusano, le narrazioni e le illazioni che vi si agitano intorno?
Nell'anno dell'Expo - un'altra manifestazione che replica un format un po' obsoleto, più fiera dell'est che reticolo di intuizioni progettuali - l'offerta culturale potrebbe semplicemente ritrovare tra le pareti e i depositi dei Musei la miriade di evocazioni che sul cibo, sul suo significato carnale, onirico, simbolico e allegorico hanno costruito un palinsesto culturale molteplice, connesso e capace di fertilizzarsi indefinitamente. Si pensi al vino che tanta letteratura, poesia, musica, scultura e pittura ha ispirato e formato. E come il vino, il pane (altro nutrimento esoterico per antonomasia), la frutta, le carni e tutto il mondo che ne custodisce e ne tramanda la crescita, la trasformazione, la socialità e il desiderio.
Ecco la scommessa per i Musei, negli anni in cui le grandi mostre andranno a diluirsi nella memoria (prima o poi gli impressionisti finiranno...), le torri d'avorio saranno lasciate a vantaggio del tessuto urbano, i visitatori vorranno partecipare attivamente, la comunità territoriale chiederà di riconoscere se stessa negli spazi museali.
Non si tratta di progettare l'ennesima mostra sul cibo: magari in anni olimpici potrebbe venire in mente a qualcuno di organizzare una grande mostra sul corpo e i gesti degli atleti, dimenticando che si tratterebbe di opere già esposte e diffuse ma coperte dalla muffa dell'erudizione rituale. La sfida è con le aspettative e i desideri della società contemporanea, per sua natura ipertestuale, cross-mediale, cosmopolita e ibrida. Soprattutto, fertile. È una sfida da non mancare.

Speciale Musei per Expo 2015 - pag. 9 [2015 - N.53]

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