Vi racconto il Bel Paese. Anzi, una mostra

Al Mar un avvincente itinerario attraverso il paesaggio italiano dal Risorgimento alla Grande Guerra

Alberta Fabbri - Copnservatrice Museo d'Arte della Città di Ravenna

Quale sarebbe la percezione dell'Italia senza lo sguardo d'Oltralpe? Le pagine di Goethe nel Viaggio in Italia (1786) riverberano di una luce meridiana che è già nostalgia per come il tramando dell'ideale classico si coniugava con l'insorgenza di nuove istanze, e nuovi stili, dando vita a quello speciale palinsesto che è il paesaggio italiano. Il viaggio procede tra mille difficoltà da una capitale all'altra: Venezia, poi Roma saltando Firenze, quindi Napoli, infine la Sicilia, ancora poco battuta dai viaggiatori. Eppure nelle impressioni di un tedesco trentasettenne la penisola offriva una singolare compenetrazione di natura e architettura che dava vita a "una seconda natura destinata alla pubblica utilità".
Pochi anni e sarà il francese Quatremère de Quincy a difendere l'integrità del tessuto italiano con un'appassionata requisitoria contro i danni delle spoliazioni napoleoniche per la mutilazione dell'identità.
Da qui parte la mostra Il Bel Paese. L'Italia dal Risorgimento alla Grande Guerra, dai Macchiaioli ai Futuristi, promossa dal Museo d'Arte della Città di Ravenna con Fondazione Cassa di Risparmio, per la cura di Claudio Spadoni. Dallo sguardo forestiero di un vedutista, l'olandese Tetar van Elven, impegnato per i Savoia in alcuni dipinti che dovevano rappresentare l'Unità d'Italia. Come La Veduta fantastica dei principali monumenti d'Italia (1858) dalle Raccolte Frugone di Genova, che con dovizia di flamand enumera i monumenti eccellenti ad alta intensità civica infilandoli nel teatro naturale che li ospita, tra catena alpina, dorsale appenninica e la marina. È il 1858: Ruskin torna in Italia per la terza volta, dopo il soggiorno veneziano che aveva ispirato le pagine di Stones of Venice, meditata riflessione sulla qualità dell'architettura veneziana che non aveva lasciato indifferenti i Preraffaelliti. Era come se il diaframma della catena montuosa consentisse, d'Oltralpe, di mettere a fuoco un'unità storico-culturale e paesaggistica che ancora non godeva di legittimazione politica. L'unità di un Paese pervaso da una misura che non conosceva la sproporzione della rivoluzione romantica.
Da vicino a prevalere sembrava invece la varietà dei regionalismi con i loro idiomi inossidabili, disponibili a dialogare solo nel racconto dell'insorgenza patriottica, che la mostra pone ad antefatto per una stagione che si voleva smarcata dall'antico - antico regime? - in nome dell'attualità e dei suoi cronisti. E se il britannico Thomas non esita a concedersi il décor tardo romantico di una passerella di giubbe, pennacchi e cappe per Garibaldi in assedio a Roma (1871), l'italiano Cammarano non risparmia il fragore nella Presa di Porta Pia, mentre Induno non fa sconti ai profughi, nuovi miserabili.
Fino a Silvestro Lega che incardina la vicenda risorgimentale nell'esperienza artistica. I Bersaglieri che conducono prigionieri austriaci (1861), sono finestra sul vero e preludio di pittura all'aria aperta. Ma anche preludio di macchia, prima che questa si estenui nel puntinismo divisionista. O nel filamento fiammante del tratto simbolista. Perché la narrazione risorgimentale si rigenera fino alle soglie del Novecento con le Manovre militari (1890) di Fattori e la Carica della cavalleria del Monferrato alla battaglia di San Martino (1900), del già simbolista Vittorio Guaccimanni.
Con l'irruzione della realtà la veduta, ancora celebrata da Caffi, diventa anacronistica e il paesaggio abbraccia l'orizzonte del quotidiano. Il fortunato panegirico dell'abate Antonio Stoppani, Il Bel Paese. Conversazioni sulle bellezze naturali, la geologia e la geografia fisica dell'Italia (1876), mutuava da Dante, e poi Petrarca, l'idea che la Bellezza fosse nel destino di questo Paese. Ma è con Robert de La Sizeranne, e il saggio Ruskin et la religion de la beauté uscito a Parigi nel 1897 e divulgato in Italia grazie a Ugo Ojetti per «Nuova Antologia», che il paesaggio diventa il "volto amato della Patria".
Il volto del quotidiano, gravido com'era di attese, si trasforma in paesaggio tout court. E se la Fanciulla sulla roccia a Sorrento (1871) di Palizzi ne è un anticipo, le Gabbrigiane (1885, 1888) di Lega, il traffico industrioso del Sobborgo di Porta Adriana a Ravenna (1875) di Signorini, o gli scorci maestosi di Fontanesi che nella pittura romantica inglese aveva intinto il pennello, sono i tanti volti di quel paesaggio che faceva dell'Italia il Bel Paese.
Un Paese che si affacciava sull'Europa, come attesta Bonzagni in uno sfrontato brano di vita del 1910 dall'aria secessionista ma con vertigini già espressioniste.
Il grande affresco dei regionalismi per la prima volta si compattava nel segno di un linguaggio nuovo, quello dei futuristi che aveva fatto abiura del passato. Il linguaggio della modernità si presentava anzitutto iconoclasta e teso a celebrare la potenza della macchina e la sua funzione demiurgica per un'estetica consegnata al rombo del motore nella prefigurazione di una nuova era. Quella stessa che molti della generazione di Boccioni, Balla, Russolo, Depero, non avrebbero conosciuto, interrotta come fu dalla guerra. De Chirico, Carrà, Sironi, Casorati i semi per una storia che dalle ceneri di una tragedia si sarebbe risollevata attingendo alla forza rigeneratrice della tradizione. E dell'antico.

Notizie dal Sistema Museale della Provincia di Ravenna - pag. 21 [2015 - N.52]

[indietro]