Stato senza autonomie e Regioni senza regionalismo

La dimensione istituzionale dei sistemi culturali

Claudio Leombroni - Provincia di Ravenna

Sono debitore del titolo a un bellissimo editoriale di Enzo Balboni e Massimo Carli pubblicato recentemente sulla rivista online «Federalismi.it» (n. 21 del 2012) e a un vecchio intervento di Giorgio Pastori pubblicato nel 1980 sulla rivista «il Mulino» con un titolo tuttora emblematico della situazione che stiamo vivendo: "Le Regioni senza regionalismo". Queste letture mi paiono la migliore contestualizzazione del complemento del titolo, che più direttamente richiama i sistemi culturali, oggetto di una sessione specifica degli Stati generali MAB che si sono svolti a Milano.

La nozione di "sistema culturale" è senz'altro problematica, perché coniuga due concetti interpretabili da tanti punti di vista e terreno di una interminabile serie di studi di vario ambito disciplinare. In ambito MAB tale nozione denota l'offerta integrata di istituti della cultura in un dato territorio e/o in un ambito specifico. Il sistema consente di migliorare l'accessibilità al patrimonio, materiale e immateriale, la qualità e la quantità della fruizione. La forma di organizzazione del sistema è tipicamente la rete: una trama di relazioni non competitive che interconnette soggetti diversi e autonomi. In questo caso una o più organizzazioni scambiano o condividono risorse di ogni genere per raggiungere obiettivi non conseguibili da ciascuna separatamente. La costruzione di un sistema di relazioni capace di integrare all'interno di uno specifico territorio sistemi e reti culturali con i beni monumentali, ambientali, il patrimonio immateriale, le infrastrutture e gli altri settori produttivi del territorio dà vita ad un 'distretto culturale'. Sistemi culturali, reti culturali e distretti culturali presuppongono quindi un solido legame con il territorio, una elevata capacità di interpretarne i tratti distintivi e di esaltarne la ricchezza, le potenzialità, le vocazioni: si potrebbe dire l'identità, a patto di non intendere quest'ultima in senso esclusivo, quasi denotasse un ambito chiuso, che tende a definire confini con ciò che è diverso da sé. Posta la centralità dei territori, ne consegue sul piano istituzionale un legame prioritario con le autonomie locali.

Il regionalismo, la difesa delle autonomie locali e dei territori sono stati punti irrinunciabili per la definizione di una politica nazionale nel nostro settore. Da questo punto di vista negli ultimi tre decenni le comunità professionali e gli attori istituzionali hanno condiviso una semantica della cooperazione in virtù della quale il termine 'nazionale': non coincide più con funzioni tout court statali o centrali, ma con funzioni di interesse generale, con funzioni o servizi che riguardano l'intero paese e in quanto tali 'nazionali', indipendentemente dal livello istituzionale. Con questa accezione un determinato servizio anche se svolto da un ente locale o, al limite, da un soggetto privato può essere considerato 'nazionale' se è riconosciuto come tale dalla filiera istituzionale o se svolge una funzione pubblica rilevante per il paese. Insomma una semantica coerente con un 'policentrismo istituzionale' à la Ostrom, ma anche con quel policentrismo che più in generale caratterizza la nostra storia e la nostra cultura. Da questo punto di vista le autonomie locali, possono esercitare funzioni di rilevanza nazionale, così come lo Stato può esercitare funzioni di rilevanza locale. La grande esperienza del Servizio Bibliotecario Nazionale, ad esempio, è stata un ambito di applicazione significativo di questa semantica del policentrismo. Successivamente il legislatore costituzionale del 2001, riformando il Titolo V della nostra Costituzione, ha di fatto legittimato il policentrismo trasformandolo in tratto identificante della nostra Repubblica.

La stagione attuale sembra essere invece caratterizzata da un neocentralismo statale che si sta lentamente, ma inesorabilmente imponendo senza incontrare resistenza e, non raramente, forzando o violando le regole e le procedure che sorreggono il nostro ordinamento. Da tempo la politica, su questo punto come su altri, sembra essersi arresa, per l'incapacità di governare una situazione di crisi del Paese, ma forse non solo. Le ragioni dell'economia, degli equilibri di bilancio e degli equilibri in seno all'Unione Europea, stanno offrendo il destro allo Stato centrale per ridurre il ruolo e le competenze delle autonomie locali. A ben guardare, tuttavia, la devoluzione delle prerogative della politica ad un governo tecnico, sta trasformando anche le modalità di assunzione delle decisioni, di discussione delle stesse, di presentazione delle stesse all'opinione pubblica. Le ragioni del bilancio prevalgono sulla discussione pubblica e inducono a una progressiva riduzione dei centri di responsabilità e dei centri di costo, a una progressiva riduzione della capacità politica delle autonomie. Per conseguire tale scopo quasi tutto è lecito, anche la demagogia amplificata dai canali mediatici o dalle reti sociali. Così, se emerge uno scandalo in una Regione o in un ente locale, col sostegno di una campagna di stampa che tende spesse a confondere (consapevolmente?) gli uomini con le istituzioni, poco dopo compare un decreto legge che non colpisce tanto corrotti e malversatori, ma piuttosto colpisce l'istituzione, diminuendone l'autonomia, la capacità di spesa e persino la rappresentatività. Insomma il tentativo di controllare rigidamente i costi, anziché definire meccanismi virtuosi di spesa condivisi con le autonomie, finisce per ridurre lo spessore istituzionale delle autonomie stesse o, per così dire, l'autonomia delle autonomie. Da un certo punto di vista si potrebbe dire che la recente decretazione d'urgenza emanata dal Governo in tema di istituzioni, rappresenta una risposta 'impolitica' all'antipolitica di molta parte della società del nostro Paese e all'assenza della politica nel senso nobile del termine; una risposta a una certa, terribile, visione del politico di professione come "ein niedriges und korruptes Wesen" per usare una espressione di Thomas Mann. Credo però che un tecnico al governo non possa essere un Mann des Geistes contrapponibile al politico di professione; soprattutto penso che il politico tout-court non possa essere identificato con l'istituzione che pro tempore rappresenta e che l'autonomia regionale e locale sia un valore-cardine del nostro ordinamento costituzionale.

Tuttavia è innegabile che le autonomie locali abbiano una parte di responsabilità nel processo di delegittimazione che le riguarda. Comuni e Province da tempo hanno un rapporto dialettico su molti temi e, oltre al tradizionale problematico rapporto con il Comune capoluogo, le Province devono ora confrontarsi con un nuovo attore (o competitor) alla ricerca di una legittimazione istituzionale: le Unioni di Comuni. Gli enti locali, a loro volta, hanno da tempo mostrato diffidenza e insofferenza per il cosiddetto 'neo-centralismo regionale'. Basti pensare che ANCI e UPI, in più di un caso, sono sembrate nutrire più avversione per le Regioni che per il Ministero dell'Interno. D'altra parte lo stillicidio di decreti riguardanti il riordino delle Province ha avuto luogo nel silenzio di ANCI e Coordinamento delle Regioni, che avrebbero invece dovuto stigmatizzare i numerosi profili di incostituzionalità ravvisabili nei contenuti e nella procedura seguita non foss'altro per la probabilità, peraltro annunciata dal Ministro per la Funzione pubblica, di esserne a loro volta vittime.

Le Regioni, d'altro canto, sembrano aver smarrito esse stesse la cultura regionalista, le ragioni profonde della loro esistenza, che non coincidono tanto con la creazione di strutture burocratiche, quanto piuttosto con il decentramento finalizzato a rafforzare la co-decisione, la co-partecipazione delle comunità locali agli obiettivi unitari del Paese. Senza quella cultura regionalista il decentramento finalizzato all'unità diventa un semplice ossimoro. Tuttavia che sarebbe senza le Regioni? Credo che senza l'autonomia regionale le condizioni di biblioteche, archivi e musei sarebbero peggiori come dimostra l'ampia letteratura del periodo precedente l'istituzione delle Regioni sulle conseguenze negative del centralismo statale e sulle ragioni del decentramento e delle autonomie locali. Le autonomie locali devono essere per noi un valore irrinunciabile.

I provvedimenti legislativi adottati nell'ultimo anno (L. 2011/214, L. 2012/135, DL 2012/88) per riordinare le Province, ma aventi anche ad oggetto le funzioni degli enti locali, presentano un impatto davvero pesante sul settore culturale, riassumibile in pochi punti:
- la cultura non rientra fra le competenze della Provincia;
- la cultura non rientra fra le competenze fondamentali del Comune;
- la cultura, non appartenendo alle funzioni fondamentali del Comune, non rientra fra le funzioni con l'obbligo di essere esercitate in forma associata dai piccoli Comuni;
- per Province e Comuni la cultura è esclusa dal finanziamento di cui alla L. 5 maggio 2009, n. 42 (c.d. legge sul federalismo fiscale);
- la cultura (o valorizzazione dei beni culturali) è una funzione amministrativa conferita dalla Regione ai Comuni, che tuttavia non hanno l'obbligo di esercitarla non essendo inclusa fra le competenze fondamentali (L. 2010/ 122, art. 14, c. 26).

In altre parole, con assai poco rispetto per l'art. 9 della Costituzione e poca coerenza, almeno per il livello comunale, con la Carta della autonomie in discussione in Parlamento, la cultura è stata sottratta alle politiche degli enti locali. Si tratta di uno stato di fatto inaccettabile per biblioteche, archivi e musei, sia singolarmente considerati, sia nella loro dimensione cooperativa (reti, sistemi, poli). Occorre quindi che gli istituti e le comunità professionali chiedano - e dagli gli Stati generali MAB è emersa una forte indicazione in tal senso - che la cultura sia competenza fondamentale dei Comuni e che la cultura sia competenza propria delle Province o, almeno, che esse siano "legittimate a spendere" in reti e sistemi di area vasta per la cultura. Ciò a due condizioni: nel rispetto dei principi costituzionali di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione in modo che l'azione e il contributo dei livelli istituzionali sia modulato sulla specificità dei contesti regionali e dei territori; a patto che i livelli istituzionali assecondino o abilitino le dinamiche della cooperazione senza logiche burocratiche e senza riguardo ai confini amministrativi.

La dimensione istituzionale dei sistemi culturali deve includere anche la sussidiarietà orizzontale. Da questo punto di vista occorre avviare una seria riflessione perché l'apporto della società civile e del 'privato' non può legittimarsi in via esclusiva sulle logiche della spending review, ma su una cultura condivisa della sussidiarietà.

La nozione di "sistema culturale" è senz'altro problematica, perché coniuga due concetti interpretabili da tanti punti di vista e terreno di una interminabile serie di studi di vario ambito disciplinare. In ambito MAB tale nozione denota l'offerta integrata di istituti della cultura in un dato territorio e/o in un ambito specifico. Il sistema consente di migliorare l'accessibilità al patrimonio, materiale e immateriale, la qualità e la quantità della fruizione. La forma di organizzazione del sistema è tipicamente la rete: una trama di relazioni non competitive che interconnette soggetti diversi e autonomi. In questo caso una o più organizzazioni scambiano o condividono risorse di ogni genere per raggiungere obiettivi non conseguibili da ciascuna separatamente. La costruzione di un sistema di relazioni capace di integrare all'interno di uno specifico territorio sistemi e reti culturali con i beni monumentali, ambientali, il patrimonio immateriale, le infrastrutture e gli altri settori produttivi del territorio dà vita ad un 'distretto culturale'. Sistemi culturali, reti culturali e distretti culturali presuppongono quindi un solido legame con il territorio, una elevata capacità di interpretarne i tratti distintivi e di esaltarne la ricchezza, le potenzialità, le vocazioni: si potrebbe dire l'identità, a patto di non intendere quest'ultima in senso esclusivo, quasi denotasse un ambito chiuso, che tende a definire confini con ciò che è diverso da sé. Posta la centralità dei territori, ne consegue sul piano istituzionale un legame prioritario con le autonomie locali.

Il regionalismo, la difesa delle autonomie locali e dei territori sono stati punti irrinunciabili per la definizione di una politica nazionale nel nostro settore. Da questo punto di vista negli ultimi tre decenni le comunità professionali e gli attori istituzionali hanno condiviso una semantica della cooperazione in virtù della quale il termine 'nazionale': non coincide più con funzioni tout court statali o centrali, ma con funzioni di interesse generale, con funzioni o servizi che riguardano l'intero paese e in quanto tali 'nazionali', indipendentemente dal livello istituzionale. Con questa accezione un determinato servizio anche se svolto da un ente locale o, al limite, da un soggetto privato può essere considerato 'nazionale' se è riconosciuto come tale dalla filiera istituzionale o se svolge una funzione pubblica rilevante per il paese. Insomma una semantica coerente con un 'policentrismo istituzionale' à la Ostrom, ma anche con quel policentrismo che più in generale caratterizza la nostra storia e la nostra cultura. Da questo punto di vista le autonomie locali, possono esercitare funzioni di rilevanza nazionale, così come lo Stato può esercitare funzioni di rilevanza locale. La grande esperienza del Servizio Bibliotecario Nazionale, ad esempio, è stata un ambito di applicazione significativo di questa semantica del policentrismo. Successivamente il legislatore costituzionale del 2001, riformando il Titolo V della nostra Costituzione, ha di fatto legittimato il policentrismo trasformandolo in tratto identificante della nostra Repubblica.

La stagione attuale sembra essere invece caratterizzata da un neocentralismo statale che si sta lentamente, ma inesorabilmente imponendo senza incontrare resistenza e, non raramente, forzando o violando le regole e le procedure che sorreggono il nostro ordinamento. Da tempo la politica, su questo punto come su altri, sembra essersi arresa, per l'incapacità di governare una situazione di crisi del Paese, ma forse non solo. Le ragioni dell'economia, degli equilibri di bilancio e degli equilibri in seno all'Unione Europea, stanno offrendo il destro allo Stato centrale per ridurre il ruolo e le competenze delle autonomie locali. A ben guardare, tuttavia, la devoluzione delle prerogative della politica ad un governo tecnico, sta trasformando anche le modalità di assunzione delle decisioni, di discussione delle stesse, di presentazione delle stesse all'opinione pubblica. Le ragioni del bilancio prevalgono sulla discussione pubblica e inducono a una progressiva riduzione dei centri di responsabilità e dei centri di costo, a una progressiva riduzione della capacità politica delle autonomie. Per conseguire tale scopo quasi tutto è lecito, anche la demagogia amplificata dai canali mediatici o dalle reti sociali. Così, se emerge uno scandalo in una Regione o in un ente locale, col sostegno di una campagna di stampa che tende spesse a confondere (consapevolmente?) gli uomini con le istituzioni, poco dopo compare un decreto legge che non colpisce tanto corrotti e malversatori, ma piuttosto colpisce l'istituzione, diminuendone l'autonomia, la capacità di spesa e persino la rappresentatività. Insomma il tentativo di controllare rigidamente i costi, anziché definire meccanismi virtuosi di spesa condivisi con le autonomie, finisce per ridurre lo spessore istituzionale delle autonomie stesse o, per così dire, l'autonomia delle autonomie. Da un certo punto di vista si potrebbe dire che la recente decretazione d'urgenza emanata dal Governo in tema di istituzioni, rappresenta una risposta 'impolitica' all'antipolitica di molta parte della società del nostro Paese e all'assenza della politica nel senso nobile del termine; una risposta a una certa, terribile, visione del politico di professione come "ein niedriges und korruptes Wesen" per usare una espressione di Thomas Mann. Credo però che un tecnico al governo non possa essere un Mann des Geistes contrapponibile al politico di professione; soprattutto penso che il politico tout-court non possa essere identificato con l'istituzione che pro tempore rappresenta e che l'autonomia regionale e locale sia un valore-cardine del nostro ordinamento costituzionale.

Tuttavia è innegabile che le autonomie locali abbiano una parte di responsabilità nel processo di delegittimazione che le riguarda. Comuni e Province da tempo hanno un rapporto dialettico su molti temi e, oltre al tradizionale problematico rapporto con il Comune capoluogo, le Province devono ora confrontarsi con un nuovo attore (o competitor) alla ricerca di una legittimazione istituzionale: le Unioni di Comuni. Gli enti locali, a loro volta, hanno da tempo mostrato diffidenza e insofferenza per il cosiddetto 'neo-centralismo regionale'. Basti pensare che ANCI e UPI, in più di un caso, sono sembrate nutrire più avversione per le Regioni che per il Ministero dell'Interno. D'altra parte lo stillicidio di decreti riguardanti il riordino delle Province ha avuto luogo nel silenzio di ANCI e Coordinamento delle Regioni, che avrebbero invece dovuto stigmatizzare i numerosi profili di incostituzionalità ravvisabili nei contenuti e nella procedura seguita non foss'altro per la probabilità, peraltro annunciata dal Ministro per la Funzione pubblica, di esserne a loro volta vittime.

Le Regioni, d'altro canto, sembrano aver smarrito esse stesse la cultura regionalista, le ragioni profonde della loro esistenza, che non coincidono tanto con la creazione di strutture burocratiche, quanto piuttosto con il decentramento finalizzato a rafforzare la co-decisione, la co-partecipazione delle comunità locali agli obiettivi unitari del Paese. Senza quella cultura regionalista il decentramento finalizzato all'unità diventa un semplice ossimoro. Tuttavia che sarebbe senza le Regioni? Credo che senza l'autonomia regionale le condizioni di biblioteche, archivi e musei sarebbero peggiori come dimostra l'ampia letteratura del periodo precedente l'istituzione delle Regioni sulle conseguenze negative del centralismo statale e sulle ragioni del decentramento e delle autonomie locali. Le autonomie locali devono essere per noi un valore irrinunciabile.

I provvedimenti legislativi adottati nell'ultimo anno (L. 2011/214, L. 2012/135, DL 2012/88) per riordinare le Province, ma aventi anche ad oggetto le funzioni degli enti locali, presentano un impatto davvero pesante sul settore culturale, riassumibile in pochi punti:
- la cultura non rientra fra le competenze della Provincia;
- la cultura non rientra fra le competenze fondamentali del Comune;
- la cultura, non appartenendo alle funzioni fondamentali del Comune, non rientra fra le funzioni con l'obbligo di essere esercitate in forma associata dai piccoli Comuni;
- per Province e Comuni la cultura è esclusa dal finanziamento di cui alla L. 5 maggio 2009, n. 42 (c.d. legge sul federalismo fiscale);
- la cultura (o valorizzazione dei beni culturali) è una funzione amministrativa conferita dalla Regione ai Comuni, che tuttavia non hanno l'obbligo di esercitarla non essendo inclusa fra le competenze fondamentali (L. 2010/ 122, art. 14, c. 26).

In altre parole, con assai poco rispetto per l'art. 9 della Costituzione e poca coerenza, almeno per il livello comunale, con la Carta della autonomie in discussione in Parlamento, la cultura è stata sottratta alle politiche degli enti locali. Si tratta di uno stato di fatto inaccettabile per biblioteche, archivi e musei, sia singolarmente considerati, sia nella loro dimensione cooperativa (reti, sistemi, poli). Occorre quindi che gli istituti e le comunità professionali chiedano - e dagli gli Stati generali MAB è emersa una forte indicazione in tal senso - che la cultura sia competenza fondamentale dei Comuni e che la cultura sia competenza propria delle Province o, almeno, che esse siano "legittimate a spendere" in reti e sistemi di area vasta per la cultura. Ciò a due condizioni: nel rispetto dei principi costituzionali di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione in modo che l'azione e il contributo dei livelli istituzionali sia modulato sulla specificità dei contesti regionali e dei territori; a patto che i livelli istituzionali assecondino o abilitino le dinamiche della cooperazione senza logiche burocratiche e senza riguardo ai confini amministrativi.

La dimensione istituzionale dei sistemi culturali deve includere anche la sussidiarietà orizzontale. Da questo punto di vista occorre avviare una seria riflessione perché l'apporto della società civile e del 'privato' non può legittimarsi in via esclusiva sulle logiche della spending review, ma su una cultura condivisa della sussidiarietà.

La nozione di "sistema culturale" è senz'altro problematica, perché coniuga due concetti interpretabili da tanti punti di vista e terreno di una interminabile serie di studi di vario ambito disciplinare. In ambito MAB tale nozione denota l'offerta integrata di istituti della cultura in un dato territorio e/o in un ambito specifico. Il sistema consente di migliorare l'accessibilità al patrimonio, materiale e immateriale, la qualità e la quantità della fruizione. La forma di organizzazione del sistema è tipicamente la rete: una trama di relazioni non competitive che interconnette soggetti diversi e autonomi. In questo caso una o più organizzazioni scambiano o condividono risorse di ogni genere per raggiungere obiettivi non conseguibili da ciascuna separatamente. La costruzione di un sistema di relazioni capace di integrare all'interno di uno specifico territorio sistemi e reti culturali con i beni monumentali, ambientali, il patrimonio immateriale, le infrastrutture e gli altri settori produttivi del territorio dà vita ad un 'distretto culturale'. Sistemi culturali, reti culturali e distretti culturali presuppongono quindi un solido legame con il territorio, una elevata capacità di interpretarne i tratti distintivi e di esaltarne la ricchezza, le potenzialità, le vocazioni: si potrebbe dire l'identità, a patto di non intendere quest'ultima in senso esclusivo, quasi denotasse un ambito chiuso, che tende a definire confini con ciò che è diverso da sé. Posta la centralità dei territori, ne consegue sul piano istituzionale un legame prioritario con le autonomie locali.

Il regionalismo, la difesa delle autonomie locali e dei territori sono stati punti irrinunciabili per la definizione di una politica nazionale nel nostro settore. Da questo punto di vista negli ultimi tre decenni le comunità professionali e gli attori istituzionali hanno condiviso una semantica della cooperazione in virtù della quale il termine 'nazionale': non coincide più con funzioni tout court statali o centrali, ma con funzioni di interesse generale, con funzioni o servizi che riguardano l'intero paese e in quanto tali 'nazionali', indipendentemente dal livello istituzionale. Con questa accezione un determinato servizio anche se svolto da un ente locale o, al limite, da un soggetto privato può essere considerato 'nazionale' se è riconosciuto come tale dalla filiera istituzionale o se svolge una funzione pubblica rilevante per il paese. Insomma una semantica coerente con un 'policentrismo istituzionale' à la Ostrom, ma anche con quel policentrismo che più in generale caratterizza la nostra storia e la nostra cultura. Da questo punto di vista le autonomie locali, possono esercitare funzioni di rilevanza nazionale, così come lo Stato può esercitare funzioni di rilevanza locale. La grande esperienza del Servizio Bibliotecario Nazionale, ad esempio, è stata un ambito di applicazione significativo di questa semantica del policentrismo. Successivamente il legislatore costituzionale del 2001, riformando il Titolo V della nostra Costituzione, ha di fatto legittimato il policentrismo trasformandolo in tratto identificante della nostra Repubblica.

La stagione attuale sembra essere invece caratterizzata da un neocentralismo statale che si sta lentamente, ma inesorabilmente imponendo senza incontrare resistenza e, non raramente, forzando o violando le regole e le procedure che sorreggono il nostro ordinamento. Da tempo la politica, su questo punto come su altri, sembra essersi arresa, per l'incapacità di governare una situazione di crisi del Paese, ma forse non solo. Le ragioni dell'economia, degli equilibri di bilancio e degli equilibri in seno all'Unione Europea, stanno offrendo il destro allo Stato centrale per ridurre il ruolo e le competenze delle autonomie locali. A ben guardare, tuttavia, la devoluzione delle prerogative della politica ad un governo tecnico, sta trasformando anche le modalità di assunzione delle decisioni, di discussione delle stesse, di presentazione delle stesse all'opinione pubblica. Le ragioni del bilancio prevalgono sulla discussione pubblica e inducono a una progressiva riduzione dei centri di responsabilità e dei centri di costo, a una progressiva riduzione della capacità politica delle autonomie. Per conseguire tale scopo quasi tutto è lecito, anche la demagogia amplificata dai canali mediatici o dalle reti sociali. Così, se emerge uno scandalo in una Regione o in un ente locale, col sostegno di una campagna di stampa che tende spesse a confondere (consapevolmente?) gli uomini con le istituzioni, poco dopo compare un decreto legge che non colpisce tanto corrotti e malversatori, ma piuttosto colpisce l'istituzione, diminuendone l'autonomia, la capacità di spesa e persino la rappresentatività. Insomma il tentativo di controllare rigidamente i costi, anziché definire meccanismi virtuosi di spesa condivisi con le autonomie, finisce per ridurre lo spessore istituzionale delle autonomie stesse o, per così dire, l'autonomia delle autonomie. Da un certo punto di vista si potrebbe dire che la recente decretazione d'urgenza emanata dal Governo in tema di istituzioni, rappresenta una risposta 'impolitica' all'antipolitica di molta parte della società del nostro Paese e all'assenza della politica nel senso nobile del termine; una risposta a una certa, terribile, visione del politico di professione come "ein niedriges und korruptes Wesen" per usare una espressione di Thomas Mann. Credo però che un tecnico al governo non possa essere un Mann des Geistes contrapponibile al politico di professione; soprattutto penso che il politico tout-court non possa essere identificato con l'istituzione che pro tempore rappresenta e che l'autonomia regionale e locale sia un valore-cardine del nostro ordinamento costituzionale.

Tuttavia è innegabile che le autonomie locali abbiano una parte di responsabilità nel processo di delegittimazione che le riguarda. Comuni e Province da tempo hanno un rapporto dialettico su molti temi e, oltre al tradizionale problematico rapporto con il Comune capoluogo, le Province devono ora confrontarsi con un nuovo attore (o competitor) alla ricerca di una legittimazione istituzionale: le Unioni di Comuni. Gli enti locali, a loro volta, hanno da tempo mostrato diffidenza e insofferenza per il cosiddetto 'neo-centralismo regionale'. Basti pensare che ANCI e UPI, in più di un caso, sono sembrate nutrire più avversione per le Regioni che per il Ministero dell'Interno. D'altra parte lo stillicidio di decreti riguardanti il riordino delle Province ha avuto luogo nel silenzio di ANCI e Coordinamento delle Regioni, che avrebbero invece dovuto stigmatizzare i numerosi profili di incostituzionalità ravvisabili nei contenuti e nella procedura seguita non foss'altro per la probabilità, peraltro annunciata dal Ministro per la Funzione pubblica, di esserne a loro volta vittime.

Le Regioni, d'altro canto, sembrano aver smarrito esse stesse la cultura regionalista, le ragioni profonde della loro esistenza, che non coincidono tanto con la creazione di strutture burocratiche, quanto piuttosto con il decentramento finalizzato a rafforzare la co-decisione, la co-partecipazione delle comunità locali agli obiettivi unitari del Paese. Senza quella cultura regionalista il decentramento finalizzato all'unità diventa un semplice ossimoro. Tuttavia che sarebbe senza le Regioni? Credo che senza l'autonomia regionale le condizioni di biblioteche, archivi e musei sarebbero peggiori come dimostra l'ampia letteratura del periodo precedente l'istituzione delle Regioni sulle conseguenze negative del centralismo statale e sulle ragioni del decentramento e delle autonomie locali. Le autonomie locali devono essere per noi un valore irrinunciabile.

I provvedimenti legislativi adottati nell'ultimo anno (L. 2011/214, L. 2012/135, DL 2012/88) per riordinare le Province, ma aventi anche ad oggetto le funzioni degli enti locali, presentano un impatto davvero pesante sul settore culturale, riassumibile in pochi punti:
- la cultura non rientra fra le competenze della Provincia;
- la cultura non rientra fra le competenze fondamentali del Comune;
- la cultura, non appartenendo alle funzioni fondamentali del Comune, non rientra fra le funzioni con l'obbligo di essere esercitate in forma associata dai piccoli Comuni;
- per Province e Comuni la cultura è esclusa dal finanziamento di cui alla L. 5 maggio 2009, n. 42 (c.d. legge sul federalismo fiscale);
- la cultura (o valorizzazione dei beni culturali) è una funzione amministrativa conferita dalla Regione ai Comuni, che tuttavia non hanno l'obbligo di esercitarla non essendo inclusa fra le competenze fondamentali (L. 2010/ 122, art. 14, c. 26).

In altre parole, con assai poco rispetto per l'art. 9 della Costituzione e poca coerenza, almeno per il livello comunale, con la Carta della autonomie in discussione in Parlamento, la cultura è stata sottratta alle politiche degli enti locali. Si tratta di uno stato di fatto inaccettabile per biblioteche, archivi e musei, sia singolarmente considerati, sia nella loro dimensione cooperativa (reti, sistemi, poli). Occorre quindi che gli istituti e le comunità professionali chiedano - e dagli gli Stati generali MAB è emersa una forte indicazione in tal senso - che la cultura sia competenza fondamentale dei Comuni e che la cultura sia competenza propria delle Province o, almeno, che esse siano "legittimate a spendere" in reti e sistemi di area vasta per la cultura. Ciò a due condizioni: nel rispetto dei principi costituzionali di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione in modo che l'azione e il contributo dei livelli istituzionali sia modulato sulla specificità dei contesti regionali e dei territori; a patto che i livelli istituzionali assecondino o abilitino le dinamiche della cooperazione senza logiche burocratiche e senza riguardo ai confini amministrativi.

La dimensione istituzionale dei sistemi culturali deve includere anche la sussidiarietà orizzontale. Da questo punto di vista occorre avviare una seria riflessione perché l'apporto della società civile e del 'privato' non può legittimarsi in via esclusiva sulle logiche della spending review, ma su una cultura condivisa della sussidiarietà.

Tuttavia è innegabile che le autonomie locali abbiano una parte di responsabilità nel processo di delegittimazione che le riguarda. Comuni e Province da tempo hanno un rapporto dialettico su molti temi e, oltre al tradizionale problematico rapporto con il Comune capoluogo, le Province devono ora confrontarsi con un nuovo attore (o competitor) alla ricerca di una legittimazione istituzionale: le Unioni di Comuni. Gli enti locali, a loro volta, hanno da tempo mostrato diffidenza e insofferenza per il cosiddetto 'neo-centralismo regionale'. Basti pensare che ANCI e UPI, in più di un caso, sono sembrate nutrire più avversione per le Regioni che per il Ministero dell'Interno. D'altra parte lo stillicidio di decreti riguardanti il riordino delle Province ha avuto luogo nel silenzio di ANCI e Coordinamento delle Regioni, che avrebbero invece dovuto stigmatizzare i numerosi profili di incostituzionalità ravvisabili nei contenuti e nella procedura seguita non foss'altro per la probabilità, peraltro annunciata dal Ministro per la Funzione pubblica, di esserne a loro volta vittime.

Le Regioni, d'altro canto, sembrano aver smarrito esse stesse la cultura regionalista, le ragioni profonde della loro esistenza, che non coincidono tanto con la creazione di strutture burocratiche, quanto piuttosto con il decentramento finalizzato a rafforzare la co-decisione, la co-partecipazione delle comunità locali agli obiettivi unitari del Paese. Senza quella cultura regionalista il decentramento finalizzato all'unità diventa un semplice ossimoro. Tuttavia che sarebbe senza le Regioni? Credo che senza l'autonomia regionale le condizioni di biblioteche, archivi e musei sarebbero peggiori come dimostra l'ampia letteratura del periodo precedente l'istituzione delle Regioni sulle conseguenze negative del centralismo statale e sulle ragioni del decentramento e delle autonomie locali. Le autonomie locali devono essere per noi un valore irrinunciabile.

I provvedimenti legislativi adottati nell'ultimo anno (L. 2011/214, L. 2012/135, DL 2012/88) per riordinare le Province, ma aventi anche ad oggetto le funzioni degli enti locali, presentano un impatto davvero pesante sul settore culturale, riassumibile in pochi punti:
- la cultura non rientra fra le competenze della Provincia;
- la cultura non rientra fra le competenze fondamentali del Comune;
- la cultura, non appartenendo alle funzioni fondamentali del Comune, non rientra fra le funzioni con l'obbligo di essere esercitate in forma associata dai piccoli Comuni;
- per Province e Comuni la cultura è esclusa dal finanziamento di cui alla L. 5 maggio 2009, n. 42 (c.d. legge sul federalismo fiscale);
- la cultura (o valorizzazione dei beni culturali) è una funzione amministrativa conferita dalla Regione ai Comuni, che tuttavia non hanno l'obbligo di esercitarla non essendo inclusa fra le competenze fondamentali (L. 2010/ 122, art. 14, c. 26).

In altre parole, con assai poco rispetto per l'art. 9 della Costituzione e poca coerenza, almeno per il livello comunale, con la Carta della autonomie in discussione in Parlamento, la cultura è stata sottratta alle politiche degli enti locali. Si tratta di uno stato di fatto inaccettabile per biblioteche, archivi e musei, sia singolarmente considerati, sia nella loro dimensione cooperativa (reti, sistemi, poli). Occorre quindi che gli istituti e le comunità professionali chiedano - e dagli gli Stati generali MAB è emersa una forte indicazione in tal senso - che la cultura sia competenza fondamentale dei Comuni e che la cultura sia competenza propria delle Province o, almeno, che esse siano "legittimate a spendere" in reti e sistemi di area vasta per la cultura. Ciò a due condizioni: nel rispetto dei principi costituzionali di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione in modo che l'azione e il contributo dei livelli istituzionali sia modulato sulla specificità dei contesti regionali e dei territori; a patto che i livelli istituzionali assecondino o abilitino le dinamiche della cooperazione senza logiche burocratiche e senza riguardo ai confini amministrativi.

La dimensione istituzionale dei sistemi culturali deve includere anche la sussidiarietà orizzontale. Da questo punto di vista occorre avviare una seria riflessione perché l'apporto della società civile e del 'privato' non può legittimarsi in via esclusiva sulle logiche della spending review, ma su una cultura condivisa della sussidiarietà.

Tuttavia è innegabile che le autonomie locali abbiano una parte di responsabilità nel processo di delegittimazione che le riguarda. Comuni e Province da tempo hanno un rapporto dialettico su molti temi e, oltre al tradizionale problematico rapporto con il Comune capoluogo, le Province devono ora confrontarsi con un nuovo attore (o competitor) alla ricerca di una legittimazione istituzionale: le Unioni di Comuni. Gli enti locali, a loro volta, hanno da tempo mostrato diffidenza e insofferenza per il cosiddetto 'neo-centralismo regionale'. Basti pensare che ANCI e UPI, in più di un caso, sono sembrate nutrire più avversione per le Regioni che per il Ministero dell'Interno. D'altra parte lo stillicidio di decreti riguardanti il riordino delle Province ha avuto luogo nel silenzio di ANCI e Coordinamento delle Regioni, che avrebbero invece dovuto stigmatizzare i numerosi profili di incostituzionalità ravvisabili nei contenuti e nella procedura seguita non foss'altro per la probabilità, peraltro annunciata dal Ministro per la Funzione pubblica, di esserne a loro volta vittime.

Le Regioni, d'altro canto, sembrano aver smarrito esse stesse la cultura regionalista, le ragioni profonde della loro esistenza, che non coincidono tanto con la creazione di strutture burocratiche, quanto piuttosto con il decentramento finalizzato a rafforzare la co-decisione, la co-partecipazione delle comunità locali agli obiettivi unitari del Paese. Senza quella cultura regionalista il decentramento finalizzato all'unità diventa un semplice ossimoro. Tuttavia che sarebbe senza le Regioni? Credo che senza l'autonomia regionale le condizioni di biblioteche, archivi e musei sarebbero peggiori come dimostra l'ampia letteratura del periodo precedente l'istituzione delle Regioni sulle conseguenze negative del centralismo statale e sulle ragioni del decentramento e delle autonomie locali. Le autonomie locali devono essere per noi un valore irrinunciabile.

I provvedimenti legislativi adottati nell'ultimo anno (L. 2011/214, L. 2012/135, DL 2012/88) per riordinare le Province, ma aventi anche ad oggetto le funzioni degli enti locali, presentano un impatto davvero pesante sul settore culturale, riassumibile in pochi punti:
- la cultura non rientra fra le competenze della Provincia;
- la cultura non rientra fra le competenze fondamentali del Comune;
- la cultura, non appartenendo alle funzioni fondamentali del Comune, non rientra fra le funzioni con l'obbligo di essere esercitate in forma associata dai piccoli Comuni;
- per Province e Comuni la cultura è esclusa dal finanziamento di cui alla L. 5 maggio 2009, n. 42 (c.d. legge sul federalismo fiscale);
- la cultura (o valorizzazione dei beni culturali) è una funzione amministrativa conferita dalla Regione ai Comuni, che tuttavia non hanno l'obbligo di esercitarla non essendo inclusa fra le competenze fondamentali (L. 2010/ 122, art. 14, c. 26).

In altre parole, con assai poco rispetto per l'art. 9 della Costituzione e poca coerenza, almeno per il livello comunale, con la Carta della autonomie in discussione in Parlamento, la cultura è stata sottratta alle politiche degli enti locali. Si tratta di uno stato di fatto inaccettabile per biblioteche, archivi e musei, sia singolarmente considerati, sia nella loro dimensione cooperativa (reti, sistemi, poli). Occorre quindi che gli istituti e le comunità professionali chiedano - e dagli gli Stati generali MAB è emersa una forte indicazione in tal senso - che la cultura sia competenza fondamentale dei Comuni e che la cultura sia competenza propria delle Province o, almeno, che esse siano "legittimate a spendere" in reti e sistemi di area vasta per la cultura. Ciò a due condizioni: nel rispetto dei principi costituzionali di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione in modo che l'azione e il contributo dei livelli istituzionali sia modulato sulla specificità dei contesti regionali e dei territori; a patto che i livelli istituzionali assecondino o abilitino le dinamiche della cooperazione senza logiche burocratiche e senza riguardo ai confini amministrativi.

La dimensione istituzionale dei sistemi culturali deve includere anche la sussidiarietà orizzontale. Da questo punto di vista occorre avviare una seria riflessione perché l'apporto della società civile e del 'privato' non può legittimarsi in via esclusiva sulle logiche della spending review, ma su una cultura condivisa della sussidiarietà.


Speciale Sistemi Culturali Locali - pag. 11 [2012 - N.45]

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