E bianca. Una parola diversa per dire latte

La nuova mostra di Selvatico spore si snoda in sei musei del Sistema, con sguardi e opere contemporanee

Massimiliano Fabbri - Curatore della mostra

E bianca. Una parola diversa per dire latte è una mostra sulla perdita e gli abbandoni, su quello che resta, sugli oggetti che ci sopravviveranno, su vuoti scenari, avamposti artici e deserti. Sulle ossa e scheletri, sulle conchiglie e sassolini e molliche del pane. Sulle immagini che affiorano dalla memoria e poi sbiadiscono, o che proiettiamo sullo spazio ancora vergine del cervello, sullo sconfinato del foglio o della tavola. Sullo stupore abbagliante della visione, sul suo impedimento a tratti invincibile e sul candore tattile dei materiali, ora luccicanti come cristalli o stelle, ora opachi polverosi volatili come calce e gesso. E contatto con purezza levigata irreale di marmo. Opalina liquidità dell'occhio.

Bianchi evanescenti e impalpabili come nebbia o nuvola, materni come latte uova farina zucchero, aspri respingenti come lame. Il ritorno a casa e il panorama sconosciuto, l'essenza ultima interna delle cose e il velo che le occulta e bagna e copre lasciandone intuire a tratti le forme. Si sta come sospesi tra un bianco che acceca mangia corrode e uno che è rivelazione e carezza. Che il bianco porta sempre con sé un tentativo di orientamento, reazione al labirinto assoluto, quello dove non abbiamo più coordinate, sperduti in uno spazio infinito. Galleggianti come astronauti. Luogo incerto illimitato immenso da cui partire e a cui ritornano le cose, condizione estrema, superficie pura. Polvere e luce. Ancora a inseguire bagliori intermittenti.

Margine, limite imposto a cui si chiede di raccontare il mondo tutto o quasi, attraverso una visione fallimentarmente enciclopedica, contraddittoria perché affidata adun colore che spesso si associa all'assenza, al grado zero o tabula rasa, eppure capace di abbracciare l'intero spettro delle emozioni e percezioni. Che tiene la morte così come la visione angelica, l'astrazione estrema raggiunta per via di levare e la carta geografica o la pagina che aspetta la scrittura; il freddo glaciale siderale e il caldo accogliente del nido e bambagia e lenzuola pulite profumate fresche. Tra rapimenti scoperte e catalogazione ossessiva autistica.

La mostra si divide in sei sezioni, tutte riconducibili al bianco, umore che governa il progetto, declinato e ramificato attraverso diverse temperature e intensità che corrispondono ad echi vocazioni identità dei singoli musei che, per empatia affinità, chiamano ed accolgono il lavoro degli artisti a creare una sorta di doppio racconto o riflesso. Una trama che diventa narrazione, stratificazione di significati e immagini che si congiungono e collegano per corrispondenze e contrasti. Gemmazioni. Crescite.

Sogni e memorie alle Cappuccine di Bagnacavallo, unica pinacoteca tra i musei coinvolti ad ospitare una galleria che dal medioevo arriva sino al novecento, è della pittura e a questo linguaggio è affidata l'apertura e il racconto di questa sezione, sequenza di immagini e finestre, processione di lampi e bagliori da un mondo perduto. Se la fotografia è sempre la scena di un delitto che blocca congela uccide, la pittura apre invece e scardina e fa il tempo esploso, ci raggiunge e chiama da un'altra dimensione, offre uno spazio altro che ha sempre a che fare con il ricordo mobile e instabile di una visione. Ferita, smagliatura del tessuto che ci permette di entrare accedere ad una specie di realtà parallela, che non si dà facilmente e va come ascoltata. All'improvviso, talvolta, risucchiante distanza. Che la pittura aspetta e il movimento è il nostro e nostra la proiezione sul quadro.

A Fusignano al San Rocco e Suffragio Geometrie e altre meraviglie della natura e crescita. Uno sguardo nostalgia attraversa molte delle opere di questa mostra: una rappresentazione della natura che diventa, nella ripetizione mantra, cura e preghiera, filtrata da un fare artigianale lento a farne un diario dei giorni. Le materie, le tecniche e i modi di fare acquistano allora un significato particolare, domestico, dettano ritmo e cadenza - disegno cucito ceramica mosaico - quasi a intonare una litania perpetua, un canto delle ore oscillante tra due poli, uno cristallizzato in geometrie, dove il dato naturale sembra venire addomesticato, l'altro fatto di andamenti più curvilinei e sensuali e procedenti per accumuli e sviluppi imprevedibili caotici. Onde e sciami e ventosità.

Le targhe devozionali e l'ex ospedale ottocentesco che le ospita ci parlano di un luogo di guarigione, e allora ecco la natura riparatrice, la terapia. Prima madre a cui tornare, che accoglie e mangia, crudele e sotto attacco. Un timore. Da proteggere e difendere, con riti anche, e il cucire e un disegno decorativo ossessivo sono strategie e sortilegi per capovolgere il mondo, o salvarlo, per comprendere l'ordine segreto e la regola e numero che lo governa. Per raggiungere un equilibrio e quiete. Respiro che contempla morte e rinascita, tra ordine, sviluppo matematico e improvvise accelerazioni tumorali barocche. Griglie, strutture e sinuosità vegetali.

Ad Alfonsine Innesti, in quello che non è solo un museo di guerra ma una raccolta di storie e genti che racconta del fronte sul fiume Senio e della distruzione avvenuta ai danni dei paesi affacciati; questa mostra parte da una piccola sezione che conserva un gruppo di oggetti lasciati indietro e abbandonati dopo il passaggio degli eserciti. Oggetti militari che gli abitanti hanno poi riutilizzato mettendo in pratica un atteggiamento in bilico tra la decontestualizzazione del ready-made e lo sguardo iconoclasta che cambia di significato alle cose, senza negarle del tutto, infischiandosene della loro funzione, per necessità certo, per felici intuizioni dettate dal bisogno e povertà, eppure resta sottotraccia qualcosa in più, un destino beffardo delle cose, un'amara ironia di fondo. E allora un elmetto nazista diventa un badile per raccogliere letame, una cassetta metallica contenente armi si trasforma in stufa, una griglia metallica per decolli su terreni fangosi dà il là ad una serie di cancelli visibili tuttora in Romagna. Una poetica del riciclo e riutilizzo che non è distante dalla ricerca di molti artisti che operano veri e propri innesti a partire da un alfabeto frammentato di oggetti. Rifare mondi a partire da cose già esistenti, rinominarle con nuovi assemblaggi e relazioni inconsuete a risignificarle, spostarle e riportarle in vita. Talvolta congelate in una frigida ibernazione lattiginosa.

Dall'attitudine vorace e bulimica di Varoli che trova raccoglie conserva reperti e chincaglierie (ancora una volta il collezionismo) muove la mostra di Cotignola: Archeologie. Tra il biancore lapideo glaciale del marmo e pietra, e quello osseo animale minerale cartilagineo di un bestiario bambino: fossili, impronte, corpi velati, superfici scheggiate, paesaggi intrappolati e misteriose città affioranti, fotografie da albori corrose e svanenti, e una scultura che si fa mappa, sito visto dall'alto, soglia e discorso sul tempo. Mondo scoperchiato da uno scavo, con luce che inonda rivela. La mostra abbraccia e si estende a tutto il museo in un vero e proprio cortocircuito tra collezioni e opere contemporanee.

A Lugo Esplorazioni e avventure. Anche se il museo non viene coinvolto direttamente, la figura eroica dell'aviatore Francesco Baracca aleggia, indica e traccia un possibile percorso a cui si affianca un altro fantasma di lughese illustre, quello di Agostino Codazzi cartografo e geografo e rivoluzionario. S'impone allora uno sguardo a volo d'uccello, un occhio belva che vede fruga ruba, una prospettiva aerea sulle cose; e poi la dimensione della scoperta e avventura, tra l'infimo quotidiano e l'esotico improbabile sorprendente. Indagine condotta principalmente dalla fotografia, linguaggio che, nonostante tutto, è ancora il mezzo più credibile a cui affidarsi per trafiggere la realtà. E poi il disegno, sguardo immaginifico.

Infine Massa Lombarda, Regni bambini, il tutto e niente dell'infanzia e la collezione Venturini, sorprendente raccolta fuori tempo massimo di naturalia e mirabilia; un accumulo simile a quello del fanciullo che riempie le sue tasche delle cose che trova e incontra nelle sue scorribande, un catalogo di possibilità e giochi, un abecedario del mondo.

E poi la pinacoteca a chiudere idealmente il cerchio con l'inizio di E bianca rappresentato da Bagnacavallo. Oltre alle raccolte questa sezione coinvolge anche il Centro giovani con una narrazione affidata a molteplici linguaggi che ci restituiscono un universo lieve e incantato, capace di affondi e inquietudini.

E se il museo è il bianco e il territorio ancora da scrivere, questa mostra plurale è allora il disegno che aspira ad essere mappa, tentativo di mettere le cose in relazione e stabilire rapporti, di tracciare nuove linee e traiettorie che triangolano punti sparsi nello spazio devastante. Una costellazione, una collana di perle e denti e lucine, un catalogo infinito. Un museo dell'innocenza.

Notizie dal Sistema Museale della Provincia di Ravenna - pag. 18 [2012 - N.45]

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