Musei, volontariato e sussidiarietà orizzontale

Verso il riconoscimento del ruolo attivo della cittadinanza nel sistema di gestione dei musei

Luca Baldin - Segretario Nazionale ICOM Italia

Per molto tempo la museologia italiana ha guardato al sistema anglosassone con un sentimento a metà strada tra l'invidia e la diffidenza. Un sentimento che raggiungeva l'apice nel momento in cui si faceva riferimento allo "strabiliante" rapporto tra professionalizzati e volontari del National Trust inglese (3 a 7!) e che dava esito al classico: "sì, sì... ma si tratta di una realtà completamente diversa dalla nostra". E così la questione veniva archiviata.
Va detto che tale atteggiamento trovava - e in parte trova ancora - qualche ragion d'essere in un modo effettivamente diverso di intendere l'etica e la responsabilità sociale nel nostro paese, ma anche in una dimensione del volontariato culturale italiano che sembrava assai differente non solo da quello anglosassone, ma anche da quello nostrano nel campo sociale. Ciò che emergeva era infatti un profilo troppo spesso elitario, radicale al punto da risultare a tratti anacronistico, perciò spesso lontano dalla quotidianità di chi, per mestiere e con molte difficoltà si occupa del patrimonio culturale italiano, nella consapevolezza, quasi mai condivisa, che la propria missione è per definizione un paradosso che dà vita a un compromesso: quello di conciliare le esigenze, inconciliabili, della conservazione e della fruizione, ed entrambe con quelle della vita, nel suo continuo divenire.
Questa la situazione fino agli inizi del nuovo secolo, dopodiché, interrompendo la sequenza di congetture e malintesi, per la prima volta abbiamo iniziato a disporre di qualche dato scientificamente attendibile sul reale impatto del volontariato sui cinquemila musei italiani, scoprendo come d'incanto che il fenomeno era assai più complesso di quanto si supponesse. Dapprima fu un'indagine sui musei piemontesi della Fondazione Fitzcaraldo del 2006, dalla quale risultava il dato, da molti ritenuto inverosimile, che circa la metà dei musei di quella regione risultava gestita esclusivamente da personale volontario, cosa che fece del Piemonte, per qualche tempo, un "caso" in Italia. Poi arrivarono le indagini di qualche altra regione, trasformando quel primo dato in una tendenza nazionale; infine giunse l'indagine ISTAT del 2008 che, per quanto limitatamente ai musei di interesse locale e con significative differenze da regione a regione, rese noto il fatto che circa la metà del personale attivo nei musei di interesse locale opera a titolo volontario.
D'improvviso è come se ci fossimo accorti che l'Italia, in fondo, non era così diversa dall'Inghilterra... Battute a parte, una cosa era certa: nei musei la sussidiarietà orizzontale era già una realtà, anche se non se n'era accorto nessuno, e quell'idea di gestione partecipata del patrimonio - ancora oggi ritenuta dai più "rivoluzionaria" - che trasuda dalle pagine di Hugues de Varine, in Italia era ed è una prassi consolidata. La questione più rilevante da capire rimaneva dove e come opera questo esercito di volontari.
Sotto questo profilo il primo dato è che quando incide concretamente sulla gestione, assumendo ruoli di responsabilità, il volontariato è attivo prevalentemente nei musei di dimensione medio-piccola, mentre nei musei di dimensioni più consistenti il suo impiego segue gli schemi assai più tradizionali e consolidati che potremmo definire, senza alcuna accezione negativa, degli "amici" del museo. I musei gestiti da volontari sono spesso degli one man museums e ancora più sovente appartengono alla categoria della demo-etno-antropologia, con qualche incursione nella storia. Non si tratta quindi di quei musei del genius loci di cui spesso ci parla Alessandra Mottola Molfino (che coincidono assai di più e meglio ai musei civici), ma dell'effetto di quel boom demografico di micromusei che costituisce uno dei più evidenti strumenti per l'elaborazione dei lutti della società contemporanea (la civiltà contadina, le guerre mondiali, la classe operaia); ed è soltanto il volontariato a rendere sostenibile il peso della gestione di un sistema museale così evidentemente "inefficiente", anche se non di meno significativo dal punto di vista fenomenologico e culturale.
La vera differenza tra sistema anglosassone e sistema italiano sta, quindi, più che nei numeri, nel metodo che razionalizza l'apporto di manodopera intellettuale (e non solo) a costo zero al sistema di gestione del patrimonio culturale nazionale. Se da una parte abbiamo quello ampiamente collaudato dei Trustees, che organizza professionalmente le risorse, dal reclutamento alla formazione, e le inserisce all'interno di un meccanismo virtuoso, in cui ognuno ha una funzione e un ruolo, con esiti di efficienza ed efficacia indubbi, e con un forte coinvolgimento di tutti gli istituti, anche dei più grandi e prestigiosi; dall'altra abbiamo il sistema italiano, spontaneistico e un po' anarchico, che incide poco o nulla nella gestione dei grandi istituti e che viceversa ha nelle sue mani, in via quasi esclusiva, le sorti di quel pulviscolo museale che è cresciuto esponenzialmente dal secondo dopoguerra ad oggi.
Sia il documento preparatorio che le risoluzioni finali della III Conferenza Nazionale dei Musei d'Italia, tenutasi a Verona nel novembre del 2007, evidenziavano molte delle questioni qui poste e alcune possibili azioni tese a superare la debolezza intrinseca del sistema, coniugando di più e meglio professionalità e volontariato.
Anche la Conferenza di Verona lasciava tuttavia inesplorato un tema delicatissimo, sul quale credo viceversa sia giunto il momento di avviare una seria riflessione e che si sta ponendo con drammaticità oggi, in presenza degli effetti di una violenta crisi recessiva, ovvero: che modello abbiamo in mente per il sistema museale italiano del futuro? Che azioni intendiamo intraprendere sul fronte dell'efficienza e dell'efficacia dei singoli istituti e del sistema? Cosa vogliamo chiedere con forza al legislatore e alla politica, che non sia l'erogazione di fondi che non ci sono e presumibilmente non ci saranno nel futuro?
La questione centrale è diventata la sostenibilità e al suo interno la variante "volontariato" non può essere considerata trascurabile. È tuttavia improcastinabile un salto di qualità complessivo, che razionalizzi una risorsa che pensavamo di non avere e invece abbiamo scoperto di avere in quantità insospettabile. Occorre metterla al centro di un ragionamento complessivo che miri a dare efficienza ed efficacia ad un sistema che non ne ha (dobbiamo trovare finalmente il coraggio di dircelo), così come non è né efficiente, né efficace l'uso dei volontari: disorganizzati e spesso inutilmente impegnati a far sopravvivere realtà che dovrebbero essere radicalmente ripensate (e talvolta, diciamocelo, chiuse). Occorre avviare processi di aggregazione, in cui la risorsa volontariato fa leva per affermare la necessità della presenza di personale professionalizzato, e non viceversa. Occorre capire che per alcuni musei non ci possono essere risorse se non localmente, e che o una comunità si riconosce nel proprio museo e se ne fa carico a tutti gli effetti, o quel museo probabilmente non ha ragione d'esistere.
Fatta chiarezza, si porrà (si pone), l'esigenza di avere politiche del volontariato culturale all'altezza del nostro patrimonio; un volontariato che dovrà essere organizzato, formato e razionalmente utilizzato, in una logica non velleitariamente di mecenatismo diffuso, ma di partecipazione alla gestione del proprio patrimonio e di responsabilità allargata nei confronti delle generazioni presenti e future, da divulgare fin dall'età scolare. Questo e non altro significa sussidiarietà orizzontale.

Questo contributo è già comparso nel corso del 2011 nel Bollettino di Italia Nostra


Speciale MAB e volontariato - pag. 13 [2012 - N.44]

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