Un dono dell'Adriatico: le erme di Ippolito II d'Este

Al Museo Nazionale di Ravenna un singolare ritrovamento subacqueo

Paolo Novara - Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici, Ravenna

Nell'agosto del 1936, al largo della foce del Reno, furono ripescate casualmente due erme, di cui una frammentaria, raffiguranti due personaggi barbati. La notizia fu raccolta dalla editoria specializzata, ma non ebbe alcun'eco popolare.
Il Museo Nazionale di Ravenna, il cui definitivo allestimento nella nuova sede presso San Vitale era stato portato a termine da poco, accolse i due pezzi che furono collocati nella saletta IV del secondo piano e in quella sistemazione i busti sono descritti nella guida del Museo edita nel 1937 per cura di Santi Muratori nella collana Itinerari dei musei e monumenti d'Italia (pp. 20-21). Negli anni immediatamente successivi, in quello stesso luogo al largo di Porto Corsini, furono recuperate altre tre erme (vd. Le Arti, a. III, p. 467 e a. V, p. 139).
Il disastroso susseguirsi degli eventi legati alla seconda guerra mondiale nella nostra regione, distolse l'attenzione nei confronti del Museo ravennate e solo nei primi anni '50 del Novecento, quando il Museo fu riaperto al pubblico dopo le ristrutturazioni resesi necessarie per i forti danni subiti dalle strutture, le erme destarono l'interesse degli studiosi. Ciò anche in virtù del fatto che nel 1954, sempre casualmente, fu ritrovato un frammento che completava uno dei pezzi rimessi in luce nel 1936. Nella impostazione postbellica della esposizione, le cinque erme furono inserite nel percorso museale mantenendo la collocazione originale (nella saletta IV del secondo piano), come le descrive la guida del rinnovato Museo curata da Giuseppe Bovini nel 1951 (pp. 30-33).
Risale al 1953, il primo, importante studio monografico dedicato ai cinque busti ravennati. Lo si deve a Paolo Enrico Arias (vd. Jahrbuch des Deutschen Archaeologischen Instituts, n. 68, pp. 102-123). E alla indagine di Arias si deve anche la più esaustiva, e a oggi accettata, spiegazione del motivo di una tale presenza nell'Adriatico. Lo studioso, infatti, legò tali materiali a un carico inviato dal cardinale Ippolito II d'Este a Ferrara: trovandosi la nave da trasporto in avaria in prossimità della foce del Reno, le erme sarebbero state gettate in mare per liberarsi del peso e scongiurare l'affondamento, che però avvenne ugualmente. Ippolito II d'Este (1509-1572), figlio della celebre Lucrezia Borgia e del duca di Ferrara Alfonso I, dopo aver bruciato le tappe nella carriera ecclesiastica, divenne cardinale e fu nominato governatore di Tivoli. Malgrado i tiburtini non ne gradissero la presenza, Ippolito accettò l'incarico principalmente per gli interessi che intendeva rivolgere al ricco patrimonio archeologico che la cittadina poteva offrire. Egli entrò nella nuova sede nel 1550 e poco dopo diede l'avvio alla realizzazione, su progetto di Pirro Ligorio, di una villa che ancora oggi costituisce uno dei più significativi esempi di residenza rinascimentale in Italia. In quello stesso frangente, Ippolito intraprese la raccolta di materiali archeologici dal circondario tiburtino e da Roma.
Nel 1567 a Ferrara, il duca Alfonso II incaricò Pirro Ligorio di progettare all'interno del castello una nuova biblioteca in cui, accanto ai volumi, voleva fosse creato un antiquarium in cui collocare antiche erme di poeti, filosofi e uomini illustri. A tale scopo, Ligorio delegò Alessandro de' Grandi, agente degli Este a Roma, alla ricerca di diciotto busti. Notizia di tali materiali è riportata in alcuni dei codici di Ligorio oggi conservati a Torino e recentemente editi per cura della Venetucci (Libri degli antichi eroi e uomini illustri, XLIV-XLVI, cod. J a. II. 10).
Le cinque erme ravennati raffigurano Milziade, in due versioni con epigrafe greca e latina e senza epigrafe, il tipo detto Dionysos-Platon, Epicuro e Carneade. Di tre dei busti (i due di Milaziade e quello di Epicuro, che Pirro Ligorio individuava come di Aristide o Temistocle) sappiamo, da una lettera inviata dal de' Grossi al duca Alfonso II nel 1571, che erano state rimesse in luce poco tempo prima sul Celio e concesse all'antiquario da Ippolito d'Este per il progetto ligoriano dello studiolo ferrarese (vd. B.P. Venetucci in Studi di Memofonte, V, pp. 66-67); degli altri due non conosciamo la provenienza.
Gli studi condotti dal Frêl negli anni '60 del Novecento (Felix Ravenna, s. 3, nn. 48-49, pp. 5-17), hanno permesso di individuare in tutte le erme ravennati, tracce di rilavorazione e di mastici cinquecenteschi, fornendo così una ulteriore prova per escludere in modo tassativo l'ipotesi che questo singolare ritrovamento avvenuto lungo la costa dell'Adriatico possa essere riferito a un relitto affondato nell'antichità.

Speciale Musei e acque - pag. 16 [2012 - N.43]

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