Quale formazione per quale professione

Per una dialettia sulla preparazione universitaria alle professioni del patrimonio

Luca Baldin - Segreterio Nazionale ICOM Italia

Nadia Barrella alla luce di una sua utile ricognizione sullo stato dell'arte in materia di insegnamento della museologia a livello universitario, nel numero di marzo 2011 di Museo In-forma si interrogava su che cosa ci si debba attendere in materia di formazione dei quadri dirigenti (e non solo) dei musei italiani alla luce della recente riforma dell'Università, voluta dall'attuale governo e dal Ministro Gelmini, citando al riguardo anche alcuni documenti d'orientamento recentemente prodotti da ICOM Italia.

Ringraziandola per aver aperto la discussione, mi permetto di riprendere il tema rilanciando un dibattito che mi sembra prima ancora che utile, urgente e necessario.

Dirò quindi subito che -fatto salvo il fatto che l'offerta formativa universitaria non ha subito sostanziali sconvolgimenti, confermando la formula voluta dal Ministro Berliguer del cosiddetto 3+2, accompagnata da possibili specializzazioni, ottenibili attraverso master di primo e secondo livello e scuole di specializzazione, e lasciando sullo sfondo i dottorati di ricerca che dovrebbero in linea di principio costituire il primo livello d'ingresso delle nuove leve della formazione universitaria - ritengo personalmente che il tema vada affrontato entro i margini di tale articolazione.

So, e ne sono perfettamente consapevole, che con questa affermazione, che può sembrare poco più che una banalità, mi pongo già in posizione eccentrica rispetto a molti colleghi e in parte anche rispetto quanto dibattuto all'interno di ICOM Italia in merito alla cosiddetta "scuola nazionale di Museum Studies", per quanto ad oggi, voglio sottolineare, non esista alcuna posizione ufficiale di ICOM Italia in materia, come testimonia ampiamente il documento presentato da Anna Maria Visser (consultabile sul sito www.icom-italia.org) in un recentissimo convegno organizzato da ICOM Italia e dall'Università di Macerata (Fermo, 15-16 aprile 2011). La verità è che nutro poca, per non dire nessuna fiducia rispetto all'ipotesi che si possa giungere in un futuro vicino o lontano all'istituzione di tale nuovo strumento formativo immaginato sul modello francese, e personalmente nutro anche qualche dubbio che nel momento in cui ci si dovesse arrivare, questo si tradurrebbe automaticamente e per forza in una buona cosa per i giovani e per la nostra professione (per personale propensione preferisco il sistema liberale di stampo anglosassone a quello burocratico-centralista francese).

Cercherò quindi di argomentare queste mie convinzioni sperando di alimentare con ciò un utile dibattito.

Per farlo credo utile partire da una domanda che attende una risposta chiara, inequivocabile, da parte sia del mondo professionale che dell'Università: di che professioni stiamo parlando? I mestieri dell'archeologo, dello storico dell'arte, dell'antropologo sono una professione? Stando alle richieste reiterate di albi professionali sembrerebbe di sì. Eppure io sono convinto che non lo siano, che vadano considerate semplici (e nobilissime) discipline scientifiche che, accompagnate da appropriate abilità e tecniche, danno accesso a diverse professioni che possono andare dalla carriera ministeriale a quella dell'insegnamento per finire con quelle tipiche degli istituti della cultura, come li definisce il Codice, ovvero archivi, biblioteche e musei.

Queste sono le professioni, e su questo mi sembra ci siamo trovati tutti abbastanza d'accordo nel 2005 nel momento in cui stendevamo la Carta nazionale delle professioni museali. Queste, quindi, sono le professioni nel campo della tutela e valorizzazione del patrimonio culturale a cui dovrebbe formare l'Università al termine del cosiddetto 3+2. I "mestieri" sono quelli di funzionario della Soprintendenza, di bibliotecario, archivista o museale (evito di proposito il termine museologo, che lascerebbe intendere un legame troppo stretto con la disciplina). Se attorno a questa affermazione è possibile, credo, raccogliere un certo consenso, la prima conseguenza che ne deriva è che dovremmo trovare il coraggio di interrogarci sul ruolo e le funzioni della laurea di base e di quella cosiddetta "magistrale". Credo sia opinione oramai ampiamente condivisa che quella che originariamente si chiamava "laurea breve", fatto salvo l'accesso a poche professioni di base (pochissime nel nostro campo), è oggi anzitutto un trampolino verso la laurea magistrale. Nei tre anni di base gli studenti sviluppano quindi competenze generiche di tipo disciplinare, utili a livello di cultura di base, ma del tutto inadatte ad assicurare l'accesso alle professioni del patrimonio.

Il problema della formazione alle professioni non può che porsi quindi a livello di lauree magistrali. E qui sorge il problema, dal momento che a quel livello perdura un pregiudizio marcatamente accademico che immagina il mondo in forma di Università, capovolgendo macroscopicamente la realtà. Là dove si dovrebbe provvedere ad una specializzazione con orientamento "professionalizzante", prevalgono gli approfondimenti disciplinari, sotto forma di "indirizzi", che affinano le competenze di futuri storici dell'arte o archeologi, ma lasciano scoperte le vere professioni verso cui viceversa andrebbero indirizzate le nuove leve.

Riconsiderare quindi gli indirizzi delle lauree magistrali orientandole alle vere professioni (nel nostro caso del patrimonio) mi sembra la prima riforma attuabile a legislazione invariata.

Una riforma di questo tipo consentirebbe peraltro di dare una risposta anche alla questione giustamente sollevata da Nadia Barrella circa l'insegnamento della museologia in Italia, consentendo di immaginare un approccio più teorico nel triennio (storia della museologia, storia del collezionismo), per rimandare una una segmentazione tecnica e puntuale della materia nel biennio magistrale di specializzazione, meglio se accompagnata da una fitta attività di tirocinio negli istituti stessi.

D'altro canto, credo, abbiamo il dovere etico di tentare, almeno, di mantenere fede allo spirito originario della riforma Berlinguer, ovvero alla necessità di allineare la formazione universitaria italiana ai più affermati modelli internazionali, cercando di accelerare e non di ritardare l'ingresso alla professione delle nuove leve. Un principio sacrosanto che mi sento di sottolineare, dal momento che nutro una sorta di personale allergia per quanti si dilettano nel gioco dell'asticella che si alza sempre più, facendo della formazione non un mezzo, ma un fine, in un gioco al massacro (delle giovani generazioni) che non finisce mai.

Ma se questo fosse il disegno che fare di master e scuole di specializzazione? Semplicemente quello per cui sono nate: specializzare, anche disciplinarmente, ma su base volontaria. Premianti, ovviamente, ma svincolate da qualsiasi connessione impropria all'accesso alla professione, compito a cui deve assolvere il percorso formativo universitario basato sul triennio di base e sul biennio magistrale. Cosa che consentirebbe, tra l'altro, di assolvere il dovere eticamente irrinunciabile di non creare (o quanto meno di limitare) appannaggi sulla base del censo.

Delineato il mio pensiero, non rimane che chiedersi se in una logica di razionalizzazione cui in qualche modo spinge anche la riforma Gelmini, sia così fantascientifico immaginare di legare formazione e domanda occupazionale lavorando sull'accesso programmato e su pochi poli formativi specializzati e ben distribuiti geograficamente (nord ovest, nord est, centro, sud e isole). Se anche questo tassello andasse a posto infatti, indirettamente, credo, avremmo comunque raggiunto anche l'obiettivo di dotare l'Italia delle sue scuole di Museum Studies, senza alcuna necessità di attendere ulteriori improbabili riforme e di creare ulteriori livelli di formazione.


Contributi e riflessioni - pag. 8 [2011 - N.42]

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