Specchiarsi nell'Africa

Le mappe bizzarre e promettenti dell'Antropologia museale

Pietro Clemente - Professore di Antropologia Culturale all'Università di Firenze, Presidente di Simbdea

Fare una cartografia oggi dell'Antropologia Museale impone il ricorso a una mappa bizzarra e dinamica. Perché gli oggetti, i terreni, le forme della pratica sono molto diverse: dal criticare i musei, al farli, dal dirigerli, allo studiarne il bisogno sociale, dal considerarli come forme innovative al vederli come superati, dal fare musei domestici, a farli 'estranei', al farli di cultura materiale, o di beni immateriali, di culture locali italiane o di culture locali ex coloniali, o al farli in Africa o in Oceania o solo formare e suggerire forme museali in paesi non occidentali.
Antropologia museale è inoltre fare ricerca etnografica, ma anche expografia, occuparsi di catalogazione e di "negoziazione dei significati", di restauro e di saperi nativi, di tradizioni popolari e di etnologia, difendere musei dotati di aura storica e pieni di oggetti e farne modernissimi e senza oggetti, vedere i musei come prigioni, come modi di collezionare il mondo e vederli invece come luoghi di ricomposizione, zone di contatto. Viverli come istituzioni culturali ma avere un assessore che li considera occasioni elettorali. Fare musei d'autore, musei di comunità, musei di servizio pubblico.
Ma la lista non si ferma qui, si apre solo a una mappa radicalmente dinamica perché una nuova stagione di musei è ancora in stato nascente, talora con intenzioni ambigue, come i temi del turismo e dello sviluppo locale con cui si connette, come i finanziamenti europei e gli aiuti ai paesi terzi. Ci sono le nuove tecnologie che rendono sempre più possibile fare musei virtuali, musei immersivi, interattivi: appena aperto uno se ne immagina già un altro diverso.
Antropologia museale è un campo di tensioni multiformi che contiene dei principi 'disciplinabili' e quindi possibile oggetto anche di una disciplina. Se si dà uno sguardo alla museografia che dall'Italia e dal Continente Nero si aggira intorno all'Africa, uno dei campi 'storici' della etnologia e della museografia italiana si trovano strane somiglianze: il museo italiano della deportazione (nazifascista) di ieri a Fossoli con il museo dei campi profughi Saharawi (fatto dal Fronte Polisario nei campi profughi di un popolo impegnato a tornare nel Sahara ex 'spagnolo'occupato dal Marocco) di oggi, i musei postcoloniali in Africa con (per forza e purtroppo) a quelli ex coloniali da noi. I temi dei musei africani sono, mutatis mutandis, quelli dei nostri rovelli contadini europei dove al centro ci sono la memoria e l'identità del territorio, anche se sul versante non occidentale si intuiscono sfide che debbono essere giocate favorendo la massima autonomia, evitando che la museografia africana sia un sottogenere di quella europea e un'eredità coloniale, ma trovi modi nuovi di vivere e raccontare. Ma in tutte le riflessioni emerge soprattutto il tema cosa possiamo comunicare, come possiamo servire ai problemi del presente.
Probabilmente è questa idea che fa da guida oggi all'Antropologia museale e fa unità nella bizzarria dei suoi oggetti. Un'idea di utilità sociale, di "valorizzazione" che va nettamente oltre la funzione di "conservare" ed è tesa ad affermare la consapevolezza che il museo è "risorsa" (di cultura e di sviluppo fondamentalmente) e che quindi non concerne essenzialmente il passato ma il futuro. Forse si può dire che "il tamburo parlante" (nome del Centro di Documentazione di Montone creato da Enrico Castelli, e impegnato nel rapporto Italia-Africa) è una buona immagine del museo d'oggi che comunica messaggi, che cerca di entrare anche nel tam tam del pubblico, di intercettare con idee e segnali parte del popolo pellegrino dei visitatori.
Lo sguardo dei musei africani aiuta i nostri a vedersi, non come meri luoghi della tutela conservativa, ma anche come agenzie, talora urgenti, della formazione e della educazione collettiva, e insieme come luoghi che non sono 'regge', 'tesori nascosti' per facoltosi e raffinati uomini di gusto, né spettacoli di massa, las vegas con la minuscola, ma cercano di connettersi con progetti di vita del territorio.
I musei oggi sono luoghi aperti, comunicativi e dinamici. Se devono trovare un punto simbolico di ostilità esso resta quel mondo delle gallerie e pinacoteche che si è nel tempo definito come luogo di uno statuto sociale e intellettuale di censo, ovvero il museo come luogo dove sono imprigionate opere dell'ingegno umano che venendo da vari mondi e diversi paesaggi vengono chiuse in una cella comune, ed esibite come in uno zoo, luoghi chiusi al paesaggio esterno, nati come luoghi di potere e di ricchezza materiale e simbolica, in cui lo sguardo deve essere carico di esperienze pregresse per essere adeguato al cambio di tempo e di mondo che c'è tra un chiodo e l'altro di una parete, e in cui la custodia per la tutela diventa regola della fruizione. Questi luoghi pieni di inutili e inflazionati "capolavori" sono per l'antropologia museale in movimento magazzini aperti di possibili nuovi musei nati per essere guardati da tutti.
Il museo d'oggi cerca di comunicare con il paesaggio esterno, possibilmente anche in termini di risorse: gli ecomusei piemontesi nascono in un contesto di valorizzazione del territorio alpino da parte degli abitanti che lo "presidiano", ma sono anche poli di un turismo che si vuole sostenibile, e riferimenti di un sistema della biodiversità che ha a che fare con la natura ma anche con un vivacissimo movimento di riconoscimento della diversità alimentare. È su questo fronte che i musei cercano di non essere solo passivi ed esosi gestori di risorse dello Stato e degli Enti Locali ma progettatori di flussi turistici, di circuiti alimentari, di competenze e professionalità congeniali al museo.
Spesso la memoria anziché essere oggetto di estetizzante nostalgia è punto di riferimento per la ricerca relativa ai saperi naturalistici, alimentari, di manutenzione del territorio, si fa davvero utile a gestire il futuro. È logico che in questi casi il museo è anche fuori del museo, se esso è servito a saper fare i muretti a secco, a fare un piatto o un alimento della cucina del passato, a riconoscere un'erba medicamentosa, a far capire e condividere a un cittadino la complessa organizzazione e l'esperienza collettiva richiesta da una comunità montana. Proprio per la loro forza di contestualizzazione, la loro critica storica i musei demo-etno-antropologici sono uno dei nodi più vivaci di questo flusso critico in cui il museo non è più quello contro il quale se la prendevano i futuristi, ma è un modo attuale di gestire le fratture della vita dei territori, il nesso difficile tra locale e globale, il gioco del viaggio e della diversità che è il turismo sostenibile, la restituzione di futuro all'esperienza storica della gente.
Se è vera la sensazione di una nuova immagine di successo del museo nel nuovo millennio e per le nuove generazioni, noi stiamo cavalcando un processo di nuova popolarità e di proliferazione di tipologie dei musei, in cui anche la impronta occidentale può essere riletta e mutata o rivissuta e moltiplicata. In questa nuova popolarità il museo è soprattutto una 'funzione' connettiva (tra i vivi ed i morti, tra ambiente e storia, tra esperienze passate e future, tra territorio e memoria, tra entrata e uscita, tra progettisti e fruitori ecc.) che si concretizza in una istituzione culturale ora riconosciuta dalla legge. Ma resta fondamentale che il museo è i musei, il loro crescere e cambiare. Il loro parlare, concorrere, polemizzare. È il loro 'egocentrismo' radicale che ci chiede progetti di rete e di interconnessione di interconnessioni, la loro varietà di politiche e di figure professionali che ci richiede attenzione e tutela delle competenze e dibattito sulle politiche, il loro organizzarsi in 'campi' o settori in cui 'corporazioni' si istituiscono e quelle nuove confliggono per affermarsi (e noi vogliamo che l'Antropologia Museale sia anche un movimento per affermare la specificità antropologica dei musei), il loro raccogliere finanziamenti di nuovi soggetti (l'Europa, le Fondazioni bancarie, i Comuni, gli aiuti ai paesi terzi, l'Unesco), il loro essere guardati dagli antropologi come aspetto dei processi di 'patrimonializzazione' di parti della vita, il loro andare oltre gli oggetti materiali per evocare i saperi e i racconti e le voci.
C'è sempre maggiore vicinanza tra etnografia e museografia, poetiche e politiche si intrecciano e dialogano. In questo si intravede anche un 'disciplinamento', nel senso del profilarsi di una disciplina che faccia da guida al percorso tra le mappe bizzarre e promettenti del tessuto che connette e fa i musei.


Contributi e riflessioni - pag. 17 [2009 - N.36]

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