Garibaldi e l'identità romagnola

Con la Trafila si disegnò una "regione patriottica", premessa per un'identità politica regionale e nazionale

Roberto Balzani - Facoltà di Conservazione dei Beni Culturali dell'Università di Bologna


La dislocazione di una memoria culturale risorgimentale all'interno dello spazio romagnolo coincide con l'estate del 1849, con la ritirata leggendaria di Garibaldi, terminata la breve ma intensa esperienza della Repubblica Romana. È allora, quando si consuma il rocambolesco passaggio dell'eroe romantico per eccellenza attraverso la Romagna con Anita morente e gli austriaci alle calcagna - un itinerario che cuce San Marino, Cesenatico, Ravenna, Modigliana, montagna e pianura, città e campagna - è solo allora che la politica si fa davvero memoria culturale regionale, procedendo all'identificazione di luoghi, spazi, eventi emblematici dai quali trarre un significato valido per il "noi" collettivo. In quel momento, e non prima, Romagna e Italia si identificano per davvero, e la lotta per l'indipendenza nazionale rafforza, in senso autoctono questa volta, il processo di politicizzazione del regionalismo culturale. 

Non è un caso, del resto, che, a meno di un ventennio di distanza dagli eventi, sia già evidente il tentativo di fare del capanno in cui sostò il Generale nella periferia di Ravenna una "capanna di Betlemme" valida per tutti gli italiani: un luogo di culto riconosciuto e difeso dai regionali, ma in una prospettiva esplicitamente patriottica e non banalmente locale. Così come non possono stupire le lapidi che ancora scandiscono la concitata fuga garibaldina; o l'idea, promossa da varie associazioni ravennati nel 1885, di dedicare ai volonterosi "salvatori" di Garibaldi una tomba collettiva, espressione di un municipalismo in cerca di una legittimazione "alta".

Grazie all'irruzione della grande avventura romantica nella periferia regionale, il sofisticato processo ideologico che mira a rendere la Romagna un "caso" esemplare della "questione italiana" si trasforma in una cosa concreta, diventa polvere e sangue, petti ansimanti e grida concitate, qualche colpo di fucile esploso nell'oscurità, mantelli e sguardi furtivi, corpi che si afflosciano di fronte a plotoni d'esecuzione, il sudore che imperla il viso di una donna morente. Cosa concreta, e vista o visibile: dunque, vera. Fino a quel momento, ci sono stati uomini affiliati alla Giovine Italia, gente morta con i fratelli Bandiera, volontari del '48, difensori di Roma nel '49: come a Milano, come nelle Marche, come in tanti altri posti. Romagnoli che sono usciti dalla regione, dallo spazio locale, e sono diventati italiani.

Ma nell'estate del 1849 accade qualcosa di nuovo: non un assedio che dà un significato nuovo al gonfalone (pensiamo a Brescia, a Venezia...), ma una trafila che disegna una "regione patriottica", che pone le premesse - come vedremo - per un'identità politica regionale. Prima stigmatizzata come una tragedia collettiva, oppure evocata come un simbolo culturale. E ora, invece, fatta, fatta da Garibaldi, da Anita, e da un pugno di uomini disperati.

Ma gli eventi e i luoghi, da soli, non bastano. Per divenire memoria culturale, essi debbono passare attraverso un processo di restituzione rituale che li diffonda, li banalizzi, li trasformi in icone della regione. Il periodo 1849-1851 è davvero decisivo per la Romagna: da una parte l'epopea garibaldina nazionalizza sul serio la Romagna, dando sostanza all'identificazione della regione con la politica, già affermata a livello culturale da Mazzini e d'Azeglio; dall'altro, le fosche avventure del Passatore, il brigante Stefano Pelloni, arricchiscono di nuovi connotati il vecchio stereotipo del romagnolo violento, largamente decaduto durante i secoli della dominazione pontificia.

Attenzione, però: sarebbe un errore mettere sullo stesso piano, come pure vorrebbe la vulgata regionalista solidificatasi nei primi decenni del Novecento, Garibaldi e il Passatore, entrambi schiacciati sull'oleografia in nome di una malinconica rêverie tardo-romantica. Il Passatore è oggetto di un recupero consapevole (in primo luogo, letterario), in una temperie segnata dalla volontaria elaborazione di un pieno regionalismo culturale. Garibaldi, invece, è all'origine del mito politico della Romagna "rossa", elaborato e sviluppato in loco già negli anni Sessanta del XIX secolo, quando, all'interno del mondo democratico, alcuni intellettuali sentono il bisogno di elaborare un compiuto martirologio regionale e nazionale ad uso della politica di massa. L'idea anticipa i tempi e, nel giro di poco, trasforma la regione in uno straordinario laboratorio politico.

La pagina della Facoltà di Conservazione dei Beni Culturali dell'Università di Bologna - pag. 6 [2007 - N.28]

[indietro]