Appunti sui musei della cultura materiale

Massimo Tozzi Fontana - Istituto per i Beni Culturali

A metà degli anni Settanta, sotto la guida di maestri quali Lucio Gambi, Carlo Poni e Andrea Emiliani, iniziammo a conoscere l'allora nuovo fenomeno rappresentato dalle raccolte di oggetti e testimonianze di un'epoca bruscamente superata dalla "grande trasformazione" a cavaliere tra gli anni Cinquanta e Sessanta. I contadini inurbati avevano abbandonato nelle case coloniche e nelle campagne utensili, macchine, suppellettili, così come consuetudini, conoscenze tecniche e modi di vita praticati pressoché senza mutamenti per secoli. Queste testimonianze avevano suscitato l'interesse di collezionisti privati, talvolta mossi da intenti mercantili, di gruppi persone legate al mondo contadino e, ancora, di studiosi "impegnati", sostenuti da amministrazioni locali rese sensibili alla storia sociale dal clima culturale del dopo Sessantotto. Le raccolte, spesso disposte all'interno di castelli, rocche, ville, edifici di rilievo architettonico e urbanistico per cui non si erano trovate soluzioni più adeguate, pur risultanti da percorsi diversi e spesso singolari, avevano in comune il superamento della tradizione museale che voleva un manufatto appartenente alla sfera culturale solo in quanto prodotto di abilità artistica. In esse, per essendo talvolta presenti materiali di quel tipo, si trovano principalmente strumenti di lavoro, suppellettili domestiche e mezzi di trasporto.Ben presto si convenne che per trasformare raccolte siffatte in musei occorreva un lavoro interpretativo sugli oggetti, tradotto in sussidi didattici, ciò che è sempre mancato nei musei tradizionali. Un museo vivo, si argomentava, deve riporre il proprio interesse non soltanto nei materiali raccolti ed esposti intra muros, ma anche sulle vestigia del lavoro ancora presenti sul territorio: edifici e paesaggi trasformati.Di fronte a queste prospettive la risposta musei non è stata pronta, anzi, dalla metà degli anni Ottanta queste istituzioni sono state pressoché dimenticate: i materiali, anche per le cattive condizioni di conservazione, hanno subito un vistoso degrado; le esposizioni risultano scarsamente meditate, evidente è l'assenza di una strategia della raccolta; solo molto raramente l'acquisizione è motivata dal desiderio di completare un tema: ciò che dovrebbe essere regola principe è invece fortunata eccezione.Da questo stato di cose deriva l'impressione del visitatore di trovarsi di fronte a un'immagine fissa dell'agricoltura pre-industriale, riferibile più o meno al periodo a cui la maggior parte degli oggetti appartengono, cioè dalla fine del secolo scorso alla metà del nostro. Sarebbe invece decisivo insistere sulla periodizzazione degli oggetti esposti, nella cui storia prevale certamente la "lunga durata", ma non l'immobilità. Si può affermare che questi anni di applicazione della legge regionale, nella provincia di Ravenna così come nel resto della regione, hanno prodotto materiale catalografico di buona qualità. Un valido punto di partenza per riprendere il lavoro interrotto a metà degli anni Ottanta, teso a conoscere in profondità il patrimonio che i centri di raccolta hanno costituito, a indicarne l'ordinamento concettuale e materiale, a diffondere nel modo più efficace le conoscenze acquisite e le fonti intermedie prodotte. Funzioni queste che, tra le istituzioni dedicate alla cultura materiale, solo pochissime possono esplicare in modo autonomo.

Speciale musei etnografici - pag. 3 [1998 - N.3]

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