Itinerari devozionali a Ravenna fra Tardoantico e primo Medioevo

Alba Maria Orselli - Professore ordinario di Storia del Cristianesimo antico nell'Università di Bologna

Nella stagione del Tardoantico e del primo Medioevo, cioè nei secoli che corrono dal IV al IX secolo, Ravenna ci appare nelle sue fonti (scritte, così narrative come documentarie, monumentali, iconografiche) tesa a fissarsi nell'identità di una basileousa polis/regia civitas: una identità che si persegue per mimesi della "prima Roma", la "Roma seniore" delle fonti giuridico-canonistiche, nella successione e tradizione legittima dei suoi vescovi, attraverso Apollinare, dall'apostolo Pietro archetipo dell'istituzione ecclesiastica; e della "nuova Roma", Costantinopoli, nella configurazione e nell'assetto fisico-simbolico degli spazi urbani e nella presenza per rappresentazione (nella persona dell'esarco) dell'autorità imperiale. Per la "prima " come per la "nuova" Roma, un concorso di realtà aveva determinato per tempo la loro capacità di proporsi come meta privilegiata, o almeno passaggio necessario, dei grandi itinerari devozionali. Questi noi siamo soliti designarli come "pellegrinaggi"; ma non è inutile ricordare che "pellegrinaggio" è nel senso tecnico solo il viaggio compiuto a imitazione del patriarca Abramo, uscito per comando divino dalla sua terra, dalla sua famiglia, dalla sua casa (Gen. 12,1), cioè il viaggio che ci rende definitivamente "stranieri", estranei al nostro mondo, e ci conduce a una meta escatologica: l'adesione fisica alla storia del Cristo e all'attesa del ritorno di Lui in Terrasanta, o, più tardi, l'uscita dalla dimensione del peccato e della sofferenza penitenziale con il conseguimento del grande perdono giubilare presso le tombe apostoliche. Tali realtà si riconoscono, per la "prima Roma", nella presenza delle tombe trionfali dei principi degli Apostoli, e di una folta presenza di resti martiriali (cui l'iniziativa imperiale, la cura dei vescovi, l'evergetismo del ceto clericale danno nel tempo sistemazioni via via più manifestamente organiche e magniloquenti, alla ricerca di un ordine che è ideologicamente e storicamente significativo); per Costantinopoli, che le fonti tradizionalmente connotano come tutta cristiana all'atto della sua rifondazione costantiniana, nell'acquisizione di un patrimonio di reliquie e di memorie dell'Antico e del Nuovo Testamento e della cristianità più antica: secondo la nostra moderna interpretazione, evidenza di un meccanismo di legittimazione del potere stesso dell'imperatore, e della dimensione urbana in cui quel potere si manifesta e in qualche modo si incarna. Di realtà simili ci mancano però chiare evidenze per Ravenna, almeno nelle fonti dei suoi secoli alti. La leggenda che narra di Giustiniano giovinetto, profugo a Ravenna per sfuggire ai tumulti costantinopolitani che lo hanno reso orfano, e cui la saggia nutrice consiglia di rifugiarsi sotto la protezione dei santi ravennati, presso le loro tombe (ciò che determinerà la fondazione delle loro insigni basiliche), può ancora correre lungo uno schema stereotipico, dalla Aedificatio Ecclesiae Classensis, uno scritto anonimo di poco posteriore alla fine del XII secolo, al Liber de Constructione aureae aedis divi Vitalis martiris del cinquecentesco Giovan Pietro Ferretti, ripreso da Girolamo Rossi nel l. III delle sue Storie Ravennati: ad Apollinare o a Vitale, all'uno o all'altro dei due santi protettori (insieme "geminorum lumina oculorum" della cristianità ravennate secondo la nota espressione di Pier Damiani) si rinvia indifferentemente- o piuttosto, in rapporto all'ambito di produzione della fonte, alla cultura e alle finalità del suo autore. Ed è, ad ogni modo, tradizione documentata posteriormente al tempo che qui consideriamo. Un parallelo possibile tra Ravenna e Roma, un possibile riconoscimento di Ravenna come polo devozionale e prima ancora ecclesiologico, che la assimili, non nel profilo storico ma in quanto punto di riferimento, alla Roma di Pietro, può venirci incontro da alcune pagine di Gregorio Magno, dalle lettere del luglio 599 all'arcivescovo di Ravenna Mariniano e al notarius Castorio (Reg. IX,178 e 179), in cui si concede a Massimo vescovo di Salona (in Dalmazia: poco più tardi la sede si traslerà a Spalato, poi sempre tradizionalmente gravitante nell'orbita giurisdizionale ed ecclesiologica della Chiesa Romana), reo di simonia e altre colpe e scomunicato, di fare piena confessione e penitenza, con giuramento, "ante corpus sancti Apollinaris". Un atto che, in alcuni altri casi simili, il medesimo epistolario gregoriano ci mostra doversi compiere in Roma, "ad beati Petri sacratissimum corpus". Se il "decentramento" ravennate dell'atto di sottomissione di Massimo poté in parte anche essere dovuto alle difficoltà allora esistenti, per cause belliche, per le comunicazioni di terra tra Ravenna e Roma, resta la piena assimilazione, sul piano ecclesiologico e nei suoi riflessi disciplinari, della tomba del protovescovo ravennate ai limina apostolorum romani. Infine: il Pontificale Ravennate di Agnello (25) conserva per noi la tradizione di un viaggio devozionale in senso proprio, attribuendolo al tempo dell'episcopato di Pietro I, il cui profilo in certa misura coincide con quello storico del Crisologo, e dunque rinvia all'età dei grandi dibattiti cristologici. Con quella temperie teologica e culturale la pagina che qui si evocherà appare perfettamente congruente, al punto da lasciarci sospettare che siamo di fronte all'estratto di un dossier di argomento cristologico messo insieme, in vista delle riunioni conciliari, per affermare la compresenza nel Cristo della pienezza delle due nature. Protagonista del racconto è un "anziano" del deserto, un vecchio eremita che si consuma nel desiderio di vedere il Signore nell'aspetto della sua incarnazione, cioè nella certezza anche della sua umanità. Sarà esaudito, dopo un lungo viaggio nel quale avrà per compagni due leoni (scorta misteriosa quanto docile, per quell'Adamo rinnovato che è il monaco santo, con il quale le forze della natura tornano ad essere in pace come nei giorni dell'Eden); sarà esaudito a Ravenna, sospinto qui da una visione che gli indicherà il luogo preciso, l'ardica della chiesa Petriana, in cui troverà dipinta l'immagine agognata - e avendola contemplata, potrà morire in pace. Speciale Giubileo La tradizione dell'eremita tardoantico ci proietta dunque, per Ravenna, precisamente nella dimensione del cammino devoto e fiducioso di colui che a Roma "viene a veder la Veronica nostra" (Par. XXXI, 104), cioè, secondo altre parole di Dante stesso, "quella immagine benedetta la quale Jesu Cristo lasciò a noi per essemplo de la sua bellissima figura" (Vita Nuova XL,1).

Speciale Giubileo - pag. 9 [2000 - N.7]

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