Per un pensiero all'amico Pietro Lenzini

Un ricordo personalissimo del noto studioso italiano sulla Romagna, tra l'Appennino e Faenza, in occasione della mostra ospitata al Museo Ugonia

Andrea Emiliani - Presidente Accademia Clementina

Studiavo molto in questi tempi una Vie des Formes che, sul modello del codice insuperabile di Henri Focillon del 1934, mi conducesse alla conoscenza dei materiali e dei mondi espressivi da essi consentiti o esercitati: Focillon mi è sempre stato maestro, ammirevole ed amato. Credo che quel che conosco della forza del paesaggio, naturale o costruito che sia, derivi dalle sue letture. Come, inizialmente, le pagine molto giovanili di Marcel Proust, che facevano parte del volume Les Plaisir et les jours, dedicate a La Morte delle Cattedrali. Pagine bellissime sull'architettura delle grandi basiliche o delle piccoli pievi romanico-gotiche e delle strade in mezzo alle campagne che conducono a quelle improvvise masse coperte di muschio verde.
Poco dopo conobbi un grande, grandissimo fotografo delle forme storiche, cioè Paolo Monti. Monti, ossolano, guardava al paesaggio italiano con l'amore e la scienza di un grande classificatore, di un linguista come Gerhard Rohlfs oppure di un politico come Carlo Cattaneo. Ho avuto la fortuna di osservare buona parte di Faenza e di Cesena, di Forlì e di Bologna riflesse attraverso la sua pupilla, il suo occhio. Non esiste nulla di più educativo dell'attivare l'occhio, "fedele agente della memoria", come diceva Giacomo Leopardi. Ma occorre un grande traduttore, e Paolo Monti fu proprio questo per me. Facevo libri di immagini e "studiavo" lo spazio italiano.
Mi rivedo ogni volta, su qualche strada, mentre sullo sfondo si profila la cortina verde-azzurra degli Appennini. Chissà da dove arrivano alla via Emilia i romagnoli; hanno una faccia da contadini arguti, sembrano talora spensierati, anche se spesso privi di ottimismo (basta ricordare il grande Pantani). Che è una virtù della ponderazione, una dimensione sfuggita nel corso dei duri secoli passati da una società povera. Oggi poi, scomparse le osterie si vedono quelle stesse facce ma senza più un loro ambiente dove sostare. Stavano in piedi, un tempo e fino a trent'anni fa, nei bar fumosi, tenevano la caparèla sulle ginocchia oppure la saccona, e guardavano oltre le spalle di chi, seduto, giocava a maraffone sul vecchio tavolo dell'osteria. Qualche volta muovevano due dita da sotto il mantello smosso ed era una comunicazione. In realtà, attendevano in silenzio che venisse la primavera. Ora attendono di aprire la pompa di benzina, il negozio dove quattro granaglie le cercano solo i poveri. Un tempo erano veri empori dove la calciocianamide della Montecatini si mescolava al fosfato d'ammonio e al verderame per la vite. Mi piaceva molto il colore del verderame sui pali che ai margini della tornatura reggevano l'uva allargata a tettoia, fosse sangiovese o trebbiano biondo. O albana dolce da appassire, squisita. Quella del prete di Montericco, sopra a Imola, era, ricordo, incomparabile.


Notizie dal Sistema Museale della Provincia di Ravenna - pag. 20 [2016 - N.56]

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