Mariano Mancini e i colori del Tempio Malatestiano

Dall'Archivio Disegni della Soprintendenza alla mostra sul mito di Piero della Francesca

Federica Cavani, Emanuela Grimaldi - SBeAP Ravenna

È in corso presso i Musei San Domenico di Forlì la mostra Piero della Francesca. Indagine su un mito promossa dalla Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì, volta a indagare la fortuna di uno dei protagonisti dell'arte italiana attraverso la critica, la ricerca storiografica e la produzione artistica, abbracciando oltre cinque secoli di storia. I musei del territorio romagnolo hanno contribuito alla manifestazione prestando alcune significative opere: la Pinacoteca Civica di Forlì, i Musei Comunali di Rimini, la Galleria dei dipinti antichi della Fondazione e della Cassa di Risparmio di Cesena e il MIC di Faenza.
Anche la Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio per la province di Ravenna, Forlì-Cesena e Rimini ha prestato due disegni conservati nel proprio archivio riguardanti il Tempio Malatestiano e realizzati dal riminese Mariano Mancini (1861-1928): Progetto della decorazione pittorica delle pareti interne e Progetto di ripristino delle decorazioni della cappella di San Sigismondo.
Artista versatile, fu pittore, scenografo e decoratore. Dopo la formazione in terra di origine, si trasferì a Firenze e a Roma dove si perfezionò. Nel 1887 operò in Vaticano con Ludovico Seitz e negli anni seguenti fu impegnato a Napoli e all'estero su più fronti. Realizzò inoltre numerosi dipinti a olio, prediligendo raffigurazioni di nature morte di fiori e frutta. Meno note le sue attività di restauratore, disegnatore e membro della Commissione conservatrice dei monumenti e degli oggetti di antichità e d'arte per l'allora Soprintendenza di Ravenna. A Rimini partecipò attivamente alle operazioni di restauro, con particolare riferimento al Tempio Malatestiano e alla Rocca di Montefiore Conca.
L'attività del Mancini si inserisce nei lavori condotti al Tempio dai primi soprintendenti, Corrado Ricci e Giuseppe Gerola, dal 1904 al 1925, quando si avviò un'approfondita campagna di studi e di restauri, volti alla riproposizione del presunto aspetto della chiesa alla fine del Quattrocento. Uno dei problemi sempre vivi è stato quello della ricerca dei colori all'interno dell'edificio sin dalle precoci indagini risalenti alla seconda metà del XIX secolo. Alla fine dell'Ottocento il Mancini mise in evidenza sulla parete dell'aula tinte rosse e verdi in prossimità degli archi acuti di accesso alle cappelle. La ricerca delle originali coloriture sotto le successive scialbature proseguì nel primo decennio del Novecento nella cappella di Isotta, dove Mancini scoprì tracce dell'antico trattamento pittorico a finto broccato, e si estese a partire dal secondo decennio, oltre che nella cappella delle Reliquie, anche sulle pareti della navata e nelle altre cappelle a partire da quella di San Sigismondo, dove nel 1912 furono restituite testimonianze delle originarie decorazioni, tra le quali quella ad arabeschi nel baldacchino di destra.
Partendo dalle cromie rinvenute il Mancini realizzò alcuni interessanti progetti, disegni a tempera e acquerello, nei quali formulò ipotesi per il ripristino delle finiture pittoriche scomparse, che offrirono spunto per riflessioni e dibattiti sull'opportunità della ricostruzione di dette decorazioni. In uno dei due disegni della Soprintendenza si ritrova una scenografica redazione delle superfici della navata del Tempio resa con fedeltà delle proporzioni nella partitura degli elementi architettonico-decorativi e con vivace trattamento cromatico perlopiù caratterizzato dall'alternanza dei colori malatestiani e dalla presenza al primo ordine di un finto paramento a tessuto blu lapislazzuli con decori oro. Mancini ripropose tali colori, in analogia all'omologa cappella della Madonna dell'Acqua, anche nel progetto di ripristino della parete destra della cappella di San Sigismondo in corrispondenza del panneggio sorretto da un angelo. Entrambe le soluzioni di fatto non furono realizzate e si configurano come "bizzarri progetti" che la fantasia del pittore si compiaceva di creare. Nelle sue opere, "gioiosi poemetti cromatici", coniugò i due valori essenziali di forma e colore riuscendo a restituire il senso della solidità delle cose.
L'opera del Mancini, oltre all'innegabile valore artistico, per la qualità del disegno e la padronanza della tecnica pittorica, è un testo di grande importanza documentaria per la storia dei restauri del Tempio Malatestiano, che per il gusto scenografico e per le riflessioni sulla luce e sul colore si rifà al contesto della Rimini quattrocentesca che vide lavorare per Sigismondo Pandolfo Malatesta Matteo de' Pasti, Leon Battista Alberti e Piero della Francesca.

La Pagina della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Ravenna - pag. 8 [2016 - N.55]

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