Il territorio del patrimonio

Creare reti intercomunali di competenze per una gestione di qualità del patrimonio culturale in tempi di spending review

Roberto Balzani - Docente di Storia Contemporanea - Università di Bologna

Un fantasma si aggira per l'Italia: quello del drastico ridimensionamento della pubblica amministrazione. Necessitata dalla congiuntura finanziaria, ritardata da un ceto politico in cerca di consenso, ostacolata da una giungla normativa impenetrabile, la riforma degli enti locali rischia tuttavia di travolgere pezzi non indifferenti di quelli che sono di regola chiamati "beni comuni". La risposta che viene dal basso, in questi casi, è funzionale alla resistenza dei notabilati politici: indignazione e rigetto. Ma è, credo, la strada sbagliata. Perché ciò che oggi accade nel nostro paese va accadendo da circa un ventennio in altre nazioni d'Europa: Regno Unito, Germania, Danimarca, Francia... La ridefinizione dei poteri locali in funzione di una spesa pubblica da riclassificare, al netto della polemica anti-casta, risponde ad un processo storico, seguito all'affievolirsi del welfare State, trionfatore dei processi d'integrazione e d'inclusione sociale durante il trentennio 1945-75. Inutile soffermarsi sulle ragioni della rapidissima perdita di centralità degli Stati-nazione europei: basti qui ricordare che, con il venir meno di quote di Pil, se ne va pure la possibilità d'intervenire direttamente, da parte del pubblico, in una miriade di settori prima comunque sostenuti. E il settore del patrimonio culturale è uno di questi.

Per la verità, anche nei momenti d'oro e nonostante la perdurante retorica sul "petrolio d'Italia", non è che a questa particolare categoria di "beni comuni" sia mai stata riservata grande attenzione a livello di spesa: certo, oggi la soglia d'attenzione pare ampiamente raggiunta e superata. Se il Mibac piange, gli enti locali non ridono. Le regioni riducono enormemente gl'interventi diretti, limitandosi a finanziare strutture che possono offrire ormai solo capitale umano (pensiamo alla consistente contrazione di quanto erogato dalla Regione Emilia-Romagna nell'ultimo triennio per restauri, catalogazioni, ecc.), mentre comuni e province annaspano in un mare in tempesta per tutelare il patrimonio diffuso sul territorio. Se non vi fossero le Fondazioni di origine bancaria, che al settore "arte e cultura" dedicano in media un terzo delle erogazioni (dato nazionale), sovente la stessa parola "valorizzazione" rischierebbe di diventare desueta.

Il quadro non è consolante, ma neppure la deprecatio temporum può portare molto lontano. Bisogna cercare soluzioni praticabili che abbiano come fine la compatibilità finanziaria, la tenuta di una qualità professionale in capo al pubblico e l'integrazione fra territori e attori sociali attivi sul campo. Bisogna partire, anzitutto, da quello che c'è e che funziona. Prendiamo, ad esempio, la rete bibliotecaria costruita a partire dai processi d'informatizzazione del patrimonio librario nella provincia di Ravenna (e poi estesasi in Romagna): siamo di fronte ad un'infrastruttura che,  correttamente implementata, potrebbe produrre economie di scala ancora più forti, specie se il nucleo dei professionisti coinvolti fossero incardinati a livello di territorio vasto. Anche uno strumento come quello sul quale mi state leggendo è un'impresa culturale non banale, che non ha riscontro in province vicine: ed è una risorsa raffinata, un magnete intellettuale potenzialmente rilevante.

Io credo che, anche per ciò che concerne il sistema museale dei maggiori centri romagnoli, sia indispensabile identificare un percorso di co-gestione inter-municipale, tarato sulla valenza culturale e sulla reale possibilità d'integrare le operazioni di tutela e di valorizzazione: solo così sarà possibile non perdere, nei prossimi anni, profili professionali che oggi i comuni non sono in grado di rimpiazzare a livello di reclutamento. E non parlo solo di dirigenti: spesso il "buco" si estende ai "D" o alle "posizione organizzative", generando carenze paurose proprio in relazione a quelle funzioni specialistiche decisive per la catalogazione, per la conservazione, per la programmazione della tutela, delle esposizioni, delle attività didattiche. Non abbiamo di fronte a noi molto tempo: la perdita di professionalità genera fatalmente incuria e abbandono ed un'amministrazione, travolta dai concitati ritmi quotidiani, può dimenticarsi d'interi settori "meno esposti" rispetto alla domanda dei cittadini, affidandosi tutt'al più ai finanziatori privati per le necessarie operazioni di "visibilità" (come si dice in gergo). Mi accorgo che anch'io, da sindaco, ho operato, sia pure involontariamente, in questo senso: non sono riuscito a tamponare i bisogni essenziali (in questo caso di progetto) del settore culturale se non dopo diverso tempo, affidandomi al buon cuore e alla passione di chi è rimasto sulla linea del fronte a tenere in efficienza per quanto possibile i servizi. Ma si tratta di una lotta impari contro la clessidra: a meno di scelte radicali come quella cui ho testé accennato, il ritiro del pubblico dal settore della gestione del patrimonio culturale sarà di fatto inevitabile. Dico "gestione", perché questo è il tasto dolente: mentre, infatti, almeno finché vi sono stati adeguati finanziamenti (2008), gl'interventi sul recupero di immobili, sui restauri, sul decoro urbano immaginato come ripristino di un'imago urbis impaginata dal patrimonio non sono mancati, la formazione e il reclutamento del capitale umano sono stati in genere assai più episodici e casuali, e non hanno tenuto conto, salvo rari casi (penso in positivo alla Bim di Imola come esempio di un equilibrato percorso fra recupero immobiliare e qualità della gestione), dell'approvvigionamento di specialismi non fungibili, fra l'altro bisognosi di training tutt'altro che banali per dispiegare appieno le proprie competenze.

Di qui appunto l'idea di mettere in comune, in forme tutte da studiare, una parte almeno dei "professionisti del patrimonio", in modo da tutelare chi tutela e di dare continuità ad una piccola schiera di competenti, afferenti a pubbliche istituzioni, mettendoli al riparo da un duplice rischio: il depauperamento progressivo generato non solo dalla spending rewiew, ma anche dall'oggettiva  marginalità dell'oggetto "patrimonio" in seno alle pubbliche amministrazioni, e la deriva del privato, attratto dalle seduzioni della valorizzazione più che dalla faticosa e umbratile quotidianità della conservazione.

Esiste, infine, un'ulteriore considerazione che milita a favore dell'estensione del territorio del patrimonio rispetto ai confini a noi noti: il valore di agente di socializzazione svolto dai beni culturali e paesaggistici nelle nostre comunità, oggi frammentate, distratte e litigiose. Venute meno le appartenenze ideologiche e le idolatrie consumistiche; affievolitisi i linguaggi collettivi a vantaggio di percorsi egoistici ed autistici al limite della decifrabilità, sono pochi, pochissimi i contesti nei quali le generazioni si possono di nuovo incontrare, i ceti mischiarsi, le professioni e i mestieri cedere al cospetto di idee e di rappresentazioni ancora in grado di stupire. Ebbene, patrimonio e paesaggio sono tuttora capaci di generare questa magia, senza spese enormi e senza effetti speciali. Basta "accenderli". Facciamolo.

Speciale Sistemi Culturali Locali - pag. 14 [2012 - N.45]

[indietro]