Praticare la sussidiarietà orizzontale

Un'analisi giuridica presentata al convegno "Musei e sussidiarietà" organizzato lo scorso 14 aprile dal Coordinamento ICOM Emilia-Romagna

Daniele Donati - Docente di Diritto Amministrativo - Università di Bologna

La sussidiarietà orizzontale è, e resta, sia nella discussione dottrinale che nella pratica politica, una nebulosa di concetti, di modelli, di valori; un principio il cui reale significato, e, quindi, l'effettiva consistenza e le concrete potenzialità, sembrano restare, in gran parte, ancora indeterminate.
Invocata molto più che praticata, nella quasi assoluta assenza di giurisprudenza significativa e nella diversità di approccio da parte dei legislatori regionali e statale, la sussidiarietà orizzontale muove, oramai da dieci anni, i suoi passi incerti, basandosi soprattutto sulla fragile formulazione di cui all'art. 118, 4° comma della Costituzione, secondo il quale "Stato, Regioni, Città Metropolitane, Province e Comuni, favoriscono l'autonoma iniziativa dei privati, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà".
Questa disposizione non solo non ci offre una sostanziale definizione del termine, ma neppure ci consegna un "criterio preferenziale" per la sua applicazione, lasciandoci nell'incertezza di chi debba sussidiare chi, ovvero, chi, tra istituzioni pubbliche e cittadini, possa (o debba) scegliere e agire per primo.
È utile allora, pur rischiando un eccessivo "formalismo intepretativo", provare a fare un po' di chiarezza attraverso una esegesi puntuale del testo, elaborata a partire dai quattro termini a lettura "sensibile" della norma, e cioè dalle quattro variabili in essa presenti, relative ai termini "favoriscono", "cittadini singoli e associati", "autonoma iniziativa", "attività di interesse generale".
L'unica interpretazione che dia consistenza al termine "favoriscono" è quella secondo la quale le istituzioni pubbliche territoriali devono favorire l'iniziativa dei privati: in effetti, se si trattasse di una mera facoltà, la norma non farebbe altro che ribadire una capacità che la pubblica amministrazione ha sempre avuto e che, anzi, ha rappresentato una delle tradizionali linee della sua azione. La norma di cui all'art. 118. 4° comma Cost. non ha quindi soltanto natura programmatica, non è solo un invito, un obiettivo, ma deve essere considerata come l'affermazione di un vero e proprio dovere costituzionale che può concretizzarsi in interventi in positivo (attraverso azioni volte a sostenere l'attività dei privati) e in negativo (attraverso la sottrazione o la riduzione di oneri e costi). O ancora, a creare un clima favorevole affinché le iniziative dei cittadini, laddove assenti o incerte, inizino a diffondersi assieme alla consapevolezza del loro rinnovato ruolo.
I "cittadini singoli ed associati" cui il principio si rivolge sono tutte le persone operanti in un determinato contesto territoriale. La norma non sembra infatti assumere l'espressione in senso restrittivo, non essendoci ragioni per pensare, ad esempio, a una esclusione degli stranieri che risiedono e lavorano in Italia. Né, a rigore del testo, si possano escludere dalla applicazione del principio le imprese.
L'espressione "autonoma iniziativa", poi, sottolinea la natura necessariamente spontanea dell'attivarsi dei privati, i quali sono chiamati ad agire nello spirito della solidarietà sociale, e quindi sia nell'indipendenza da un "disegno dall'alto", da qualsiasi forma di etero-direzione, sia in ragione di una diretta e piena retribuzione per il loro contributo al bene comune.
Le conseguenze più interessanti vengono però dalla riflessione su quali attività possano essere considerate "di interesse generale". In primo luogo possiamo escludere:
- le iniziative private che si pongano finalità meramente egistiche, quale il lucro;
- le attività espressione di potestà pubbliche (non essendo ammissibile che un privato possa, per sua iniziativa, esercitare poteri di comando su un altro);
- le attività espressione di interessi strettamente individuali, legate esclusivamente alla sua dimensione soggettiva, e quindi irrilevanti per il contesto (sociale, economico, lavorativo);
Inoltre devono ritenersi escluse dalla espressione al nostro esame anche tutte le attività che possiamo rubricare come "di interesse pubblico" le quali, pur essendo senza dubbio rivolte ai soggetti in quanto membri di una collettività, si caratterizzano per essere già state prese in carico dalla pubblica amministrazione la quale, in questo modo, ha assunto su di se il compito di provvedere alla soddisfazione dei relativi bisogni (anche se attraverso risorse private, secondo lo schema dell'outsourcing).
Quest'ultima considerazione, oltre a essere testualmente corretta, riesce a dare un senso ulteriore e fortissimo alla sussidiarietà orizzontale che fa tramontare, definitivamente, il cosiddetto paradigma pan-pubblicistico, e apre le porte a una nuova dimensione, dove ciò che viene offerto a una comunità non è solamente ciò a cui provvedono le istituzioni, ma può ampliarsi a spazi finora non esplorati, in cui gli stessi cittadini si attivano per creare condizioni migliori, per garantire la cura concreta di beni comuni a tutti, non contro le amministrazioni, ma al loro fianco.
Per molte ragioni, quando si evoca la sussidiarietà orizzontale viene spontaneo ricondurla immediatamente alla dimensione del welfare e della assistenza. In questo modo, però, si dimentica che il modello che essa inaugura può ben essere applicato a spazi ulteriori. E non è un caso che proprio nella disciplina relativa alla valorizzazione dei beni culturali se ne trovi una delle prime e più autentiche realizzazioni presenti del nostro ordinamento, del tutto coerente con la lettura fino a qui proposta, laddove il terzo comma dell'art. 6 del Codice dei Beni culturali afferma che "la Repubblica favorisce e sostiene la partecipazione dei soggetti privati, singoli o associati, alla valorizzazione del patrimonio culturale".
Si noti che, a differenza delle funzioni relative alla tutela, definita all'art. 3 come consistente "nell'esercizio delle funzioni e nella disciplina delle attività dirette (...) ad individuare i beni costituenti il patrimonio culturale ed a garantire la protezione e la conservazione per i fini di pubblica fruizione", le quali si caratterizzano conseguentemente come l'espressione di un potere autoritativo e unilaterale, la valorizzazione (ancora l'art. 6) consiste "nell'esercizio di attività dirette a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio", e ciò consente e anzi suggerisce alle amministrazioni di aprirsi a un rapporto diverso e collaborativo dei privati.
Se si può osservare, che il legislatore del 2004 pare muoversi con più cautela rispetto alla formulazione data a livello costituzionale (qui il riferimento non è alla "autonoma iniziativa" dei privati, per i quali ci si limita a ipotizzare una generica "partecipazione"), e ciò per poter continuare a garantire ai soggetti pubblici un ruolo forte, è bene annotare anche che, secondo il modello che abbiamo illustrato, la presenza della amministrazione pubblica non elimina affatto la possibilità di un intervento da parte dei cittadini rispetto ad "ambiti periferici" della materia, ovvero rispetto ad attività complementari a quelle pienamente assunte in capo alla amministrazione stessa.
In questo senso si pongono, e con grande interesse, le disposizioni di cui al Capo II del Codice, che precisano le funzioni relativa alla valorizzazione.
L'art. 111, nel dettare i "Principi della valorizzazione dei beni culturali", dopo aver elencato le attività in cui essa può concretizzarsi, ribadisce in modo determinato che a esse possono "concorrere, cooperare o partecipare i privati", immaginando in questo modo una ampia e articolata gamma di soluzioni, ipotesi e relazioni, tra cui anche alcune pienamente sussidiarie alla luce di quanto abbiamo detto.
Vediamo le forme di concorrenza: un sistema di collaborazione con i cittadini è espressamente richiamato per le iniziative pubbliche di valorizzazione, dovendo queste ispirarsi, nella loro esplicazione, a principi di "libertà di partecipazione, pluralità dei soggetti, continuità di esercizio, parità di trattamento, economicità e trasparenza della gestione".
D'altra parte i privati possono assumere a loro volta una autonoma iniziativa per la valorizzazione di beni culturali di loro proprietà: in questo caso, recita, il legislatore si premura di sottolineare come anche questa attività debba essere ritenuta "socialmente utile" essendone riconosciuta la "finalità di solidarietà sociale". In ragione di ciò, ai cittadini che si attivino in questo senso possono essere riconosciute sovvenzioni o agevolazioni fiscali e altre forme di sostegno, definite di volta in volta mediante apposita convenzione .
I soggetti privati possono però anche cooperare, stipulando con i soggetti pubblici accordi volti a definire strategie e obbiettivi comuni di valorizzazione, rispetto a beni di proprietà anche privata; oppure partecipare ad "appositi soggetti giuridici" costituiti o partecipati dalle pubbliche amministrazioni, cui viene affidato il compito di elaborare e sviluppare tali programmi strategici.
Nel segno della sussidiarietà è anche l'attenzione del tutto particolare che viene prestata alle fondazioni di origine bancaria, le quali possono sia essere coinvolte nelle forme di collaborazione appena menzionate, sia stipulare con le pubbliche amministrazioni "protocolli di intesa" al fine di coordinare interventi di valorizzazione sul patrimonio culturale.
Un'ultima notazione: rispetto al modello proposto, non si pensi che le forme del privato possano agire senza offrire anch'esse delle garanzie, e assumersi la piena responsabilità delle azioni esperite. Ma questo è un altro capitolo ancora, che l'ordinamento italiano dovrà scrivere, e presto.


Contributi e riflessioni - pag. 7 [2011 - N.41]

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