Come fu che la Romagna divenne italiana

A partire dalla trafila di Garibaldi, il patriottismo risorgimentale ha caratterizzato a lungo una terra fortemente impegnata a intendere fino in fondo l'anima della Nazione

Roberto Balzani - Docente di Storia contemporanea - Università di Bologna

A dare sostanza all'identità culturale della Romagna hanno contribuito, fra Ottocento e Novecento, tante narrazioni e tante memorie: cose remote, come le avventure e le tragedie dei Comuni e delle Signorie (e qui abbiamo approfittato - noi, romagnoli - di testimonial impareggiabili, quali Dante e Machiavelli); e cose più recenti, trasformate, in una forma abbastanza originale e affascinante di racconto collettivo. Il Risorgimento è una parte, forse la più significativa, di questo racconto.

Partiamo dal rocambolesco e tragico passaggio di Garibaldi, nell'agosto 1849. La trafila assomma in sé più aspetti straordinari: la natura mista (popolare e borghese) della compagine che aiuta il Generale; il piccolo tour romagnolo compiuto nel volgere di circa 20 giorni; il dramma romantico - Anita che muore -; l'immediata aura leggendaria che circonda l'intera vicenda, tanto da dar vita a stazioni di un'autentica via Crucis laica, che sopravvivono ancor oggi. A Cesenatico, dove il Generale è ricordato tutti gli anni ai primi d'agosto, come un santo patrono laico. A Mandriole e a Ravenna, dove l'ultimo asilo di Anita e il Capanno rappresentano luoghi della memoria tutelati - è il caso del Capanno - addirittura da oltre 140 anni. A Modigliana, dove la casa di don Giovanni Verità è insieme museo del Risorgimento e tappa della trafila.

Garibaldi, insomma, cuce lo spazio e connette in senso cooperativo il Risorgimento regionale. Una traccia, la sua, che consente di trapiantare il disegno della Nazione nel territorio della piccola patria. Un meccanismo precocissimo, già in funzione dopo l'Unità, che si perfeziona con i monumenti e una prima manutenzione dei luoghi intorno agli anni Ottanta dell'Ottocento. Da allora, cambiano le forme della politica, ma l'impronta lasciata dalla "grande fuga" resta.

Dunque, Garibaldi cuce il territorio e rende la terra "patriottica" in via definitiva, mettendo involontariamente a sistema i tanti impulsi alla ribellione convulsi e frammentati dei decenni precedenti - quelli raccontati e stigmatizzati da Massimo d'Azeglio nel suo pamphlet forse più famoso: Degli ultimi casi della Romagna, anno di grazia 1846. Sentiamolo, Massimo d'Azeglio: "i casi di Romagna, per quanto di poco momento, sono pur sempre un episodio della questione dell'indipendenza Italiana, questione che tanto più fervidamente viene agitata nel segreto de' cuori e de' colloqui, quanto più severamente le è vietato palesarsi in liberi discorsi ed in libere dimostrazioni".

Anche d'Azeglio salda la lettura di tanti moti disperati, di tante reazioni clamorose e inutili per ottenere, prima della Nazione, un'amministrazione decente. Questo il filo rosso della ribellione, che solo in un secondo momento, con la Giovine Italia, viene davvero politicizzata in senso nazionale e italiano. Si percepisce, scorrendo gli annali del periodo antecedente la primavera dei popoli, un senso di spreco d'energie, di dissipazione in imprese disperate, da folli o da grandi ingenui, talvolta da banditi. L'organizzazione interviene dopo, nel delicato biennio 1848-49, quando alla formazione subentra l'azione, alla generica educazione patriottica una capacità di legare le volontà e gli individui finalmente matura.

La storia di almeno tre generazioni s'intreccia col Risorgimento. Qui in Romagna essa definisce un racconto pubblico, oltre a segnare una discontinuità forte di classe dirigente. Che ci fosse la discontinuità era naturale; che il racconto riuscisse a resistere alla fase monumentale e celebrativa durata fino al 1911, giusto un secolo fa, un po' meno.

Perché è accaduto? In primo luogo, perché la natura narrativa dell'identità regionale, si prestava a includere questo tipo di memoria. In secondo luogo, perché il Risorgimento romagnolo aveva basi ritenute leggendarie: Maroncelli allo Spielberg con Pellico; l'impossibile "marcia su Roma" del generale Sercognani nel 1831; la trafila garibaldina del 1849. Ed era, poi, fenomeno largo, coinvolgente quote di popolazione ampia, nelle città, nei paesi e non solo. E, ancora, è accaduto perché si trattava di un'opera aperta. I romagnoli, il Risorgimento, non l'hanno considerato finito con il 1861. Il "fare gli italiani", in una terra fortemente infiltrata dal democratismo e dal radicalismo, non poteva ritenersi progetto compiuto, ma programma parallelo a quello del quotidiano amministrare.

Per questo, il patriottismo risorgimentale ha poi accompagnato tutto il resto: dalla nascita dei partiti di massa all'interventismo, alla Resistenza, senza soluzione di continuità. È questo che bisogna spiegare. E che Aurelio Saffi cercò di spiegare a Giuseppe Mazzini, senza riuscirci, in un duro duello epistolare, nel giugno del 1869.

Mazzini: "Caro Aurelio, ora senti e non irritarti. Tu non hai l'intuizione della Monarchia e dell'Italia; e non l'hai perché, superiore ai più per molte facoltà, non hai tendenza iniziatrice. In te il Pensiero predomina. E differente in tutto da lui, andresti, per tendenza contemplatrice, dove va Alberto Mario: aspettare che la Monarchia proclami la repubblica".

Saffi: "Mio caro Pippo, io non nego l'azione; ma non la credo efficace, non atta a riuscire, se non esce, come frutto maturo, dall'albero che si chiama Nazione, se si crede improvvisarla per fatto di frazioni di partiti, si chiamino queste frazioni dal tuo nome, o da quello di Garibaldi, o da altri nomi minori. Eccoti tutta intera la mia confessione".

Intendere fino in fondo l'anima della Nazione, superando la frammentazione degli impulsi e dei moti: a questo impegno è legata la nostra storia. Non piccola; non angusta; non localistica. Direi piuttosto europea, nel respiro, negli intenti, nei riflessi. Saffi rivendicava con orgoglio il superamento della grande dissipazione di uomini e di energie, che aveva contrassegnato il Risorgimento in Romagna prima dello sforzo organizzato e sistematico del 1849 e del 1860. Non si poteva tornare indietro. Ora occorreva ripartire dal basso e "ripetere al minuto, in forma domestica, alla borghesia, al popolo, all'intero paese, ciò che ha in sé, ciò che può avere per costituire solidamente l'avvenire, movendo dal fondamento noto e sicuro del municipio alla organizzazione dell'ignoto, che molti temono, al nesso della comune rappresentanza nazionale".

Tale è il modo in cui, noi romagnoli, siamo diventati italiani. Ed è bene che non ce lo dimentichiamo.


Speciale 150° Anniversario dell'Unità d'Italia - pag. 9 [2011 - N.40]

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