Comunicare la nazione attraverso le arti (nel 150° dell'Unità d'Italia)

Lo stretto rapporto instaurato fra artisti, letterati e vita civile è uno dei temi chiave del nostro Risorgimento

Alfredo Cottignoli - Ordinario di Letteratura italiana Università di Bologna

È ormai ineludibile leggere il nostro Risorgimento anche attraverso le arti, come concordano gli stessi storici (sia Lucio Villari, nel suo Bella e perduta. L'Italia del Risorgimento, Laterza, 2009, sia Alberto Mario Banti, da La nazione del Risorgimento, Einaudi, 2000, all'antologia Nel nome dell'Italia, Laterza, 2010), a conferma dello stretto rapporto che, sin dall'età della Restaurazione, si venne instaurando fra artisti, letterati e vita civile, così da rappresentare quella «rivoluzione degli intellettuali» che (in Italia come nel resto d'Europa) si manifestò specie nel '48: "Senza l'apporto di idee e di entusiasmi e, in molti casi, senza il personale sacrificio di poeti, scrittori, artisti, musicisti, scienziati", riconosce infatti il Villari, "le rivoluzioni del 1848 non avrebbero gettato le basi delle culture nazionali dell'Europa moderna. Petöfi, Mameli, Berchet, Wagner, Lamartine, Hugo, Nievo, Manzoni: l'elenco è lungo". Ciò vale in grado eminente per il nostro Risorgimento nazionale, il cui limite (come ancora ben argomenta il Villari) fu proprio nell'esser stato "soprattutto un'opera politica, una macchina di idee, di "parole", di "frasi", molto spesso sganciate dai bisogni quotidiani della gente comune"; ma ove specie il melodramma ed i canti patriottici espressero il "filo continuo della memoria e dell'emozione politica condivisa".

Proprio quello della resistenza intellettuale durante la Restaurazione, a opera, non solo di politici, ma anche di poeti, pittori e musicisti, è dunque uno dei temi centrali del nostro Risorgimento, a ribadire la "santa alleanza" (alternativa a quella reazionaria europea) che allora tacitamente si strinse fra letteratura, politica e storia, in linea con l'ispirazione civile di tanti nostri artisti del primo Ottocento. Se, tramite l'eloquente titolo verdiano, bella e perduta, del libro di Villari (eco diretta della "patria sì bella e perduta" cantata nel Nabucco), si ripropone, in modo emblematico, la perenne attualità di un rischio, quello cioè della disgregazione e dell'egoismo sociale, propri dell'Italia di oggi, e un forte monito a salvare e a perfezionare l'unità del Paese, recuperando i valori fondanti della nazione e della nostra democrazia, quel che a noi qui preme soprattutto sottolineare è la rivalutazione della storia e della critica letteraria, al pari della storia delle arti e della storia politica, come frutto di una stessa temperie culturale, come "strutture portanti di una visione strettamente politica del Risorgimento" nazionale.

Rivalutare il nesso fra le idee e le forme del nostro Romanticismo letterario e artistico e l'impegno politico significa, quindi, non solo il pieno riscatto della natura militante di tanta critica e arte risorgimentale (troppo a lungo avvertita come un limite, in nome del valore autonomo dell'arte), ma anche avallarne, senza indugi, l'utilizzo in chiave prettamente storiografica, per accoglierla a pieno titolo fra i documenti storici: tale è, infatti, il valore giustamente riconosciuto ai precoci auspici manzoniani, nell'ode Marzo 1821, di un'Italia "una d'arme, di lingua, d'altare, / di memorie, di sangue e di cor", nonché al fiorire nel linguaggio poetico del Poerio, prima che in quello politico, della parola Risorgimento, ove spicca lo sprone, tutto politico, a una "guerra tremenda", a una "guerra che sconti / la rea servitù". In ciò sta, insomma, l'utilità di riguardare le stesse arti risorgimentali come una fonte storica, dovendosi attribuire pari dignità storiografica alle idee, in qualsiasi forma esse siano espresse, in pagine di riflessione teorica e politica, non meno che in musica, in pittura e in poesia: così da avvalorare definitivamente il decisivo e comune concorso delle arti alla creazione del "canone risorgimentale".

Tale riconoscimento del ruolo politico esercitato dalle lettere e dalle arti risorgimentali, oltre a conferire loro una sorta di "valore aggiunto", dà anche piena ragione alla concezione militante che il Mazzini ebbe della letteratura, come viatico di idee rivoluzionarie e strumento dell'azione politica; nonché alla sua teoria dell'arte (figlia dello storicismo romantico) come un "fatto eminentemente sociale", traduzione individuale di un sentire collettivo. Lo stesso rivoluzionario binomio mazziniano, "Dio e popolo", fu (lo si rammenti) esemplarmente tradotto dal Mameli in suoi versi martellanti: "Se il popolo si desta, / Dio si mette alla sua testa, / La sua folgore gli dà"; mentre il suo inno militare All'armi! (col severo monito: "Non deporrem la spada / Fin che sia schiavo un angolo / Dell'itala contrada, / Fin che non sia l'Italia / Una dall'Alpi al mar") sarebbe poi stato patriotticamente musicato da Giuseppe Verdi, a riprova di una straordinaria ed irripetibile stagione, in cui la complementarità delle arti si pose concordemente al servizio dell'unità italiana.


La pagina della Facoltà di Conservazione dei Beni Culturali dell'Università di Bologna - pag. 6 [2011 - N.40]

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