Guido Guidi e Ravenna

Il fotografo romagnolo si svela in un dialogo con Silvia Loddo, curatrice della mostra "Veramente" al Mar

Silvia Loddo

Vorrei usare come filo conduttore di questo breve dialogo per raccontare qualcosa del tuo rapporto con la città, le fotografie della sala dedicata a Ravenna che hai deciso di aggiungere nella mostra al Mar. La sala si apre, o si chiude, con una fotografia del 1957 che ritrae alcune tue compagne del liceo artistico nell'aula di figura di Luigi Varoli. Che ricordi hai di quegli anni a Ravenna?
Ho eseguito quella fotografia con una fotocamera 6x6 a soffietto che avevo chiesto in regalo. Succi, uno dei miei compagni di liceo, figlio di un fotografo, veniva a scuola con la macchina fotografica per la foto-ricordo delle grandi occasioni. Mi aveva incuriosito. Anche mio zio fotografava me bambino e mia mamma, che, sotto la sua regia, teneva un album con le sue fotografie di famiglia. Dedicavo molta cura al fotografare. Avevo acquistato un piccolo cavalletto, uno scatto flessibile e un manuale tecnico, trovato in edicola insieme ad altri due libretti: uno per imparare a nuotare e l'altro sulla teoria e pratica dello judo. Delle tre discipline la più importante è diventata la fotografia, ma le altre mi hanno certamente influenzato. Lo judo è stato un riferimento fondamentale nel mio lavoro, per il suo legame con la cultura orientale e il pensiero Zen. Anche il nuoto ha a che fare con la fotografia, per il legame che intrattiene con l'acqua. L'apparire dell'immagine nella bacinella dell'acqua di sviluppo è un'esperienza formidabile, che purtroppo a scuola non si fa più.
Mi sono iscritto al liceo artistico di Ravenna nell'anno scolastico 1953-54, incoraggiato dal professore di disegno delle scuole medie, l'architetto Reciputi. I miei genitori fecero di tutto per scoraggiarmi, non erano d'accordo perché si diceva che era una scuola un po' osé, probabilmente per le modelle nude... Per l'ammissione si doveva sostenere un esame. Sapevo disegnare, ma non conoscevo le altre tecniche. Mi preparai con lo scultore cesenate Amedeo Masacci, in modo forse un po' sbrigativo. Rischiai di essere bocciato, ma Ettore Bocchini, il professore di ornato che aveva due baffetti alla Clark Gable, si oppose perché secondo lui, anche se non erano tecnicamente perfetti, nei miei lavori c'era una mescolanza di colori 'armonica. Dopo il primo trimestre divenni il suo orgoglio, era fiero di averci visto giusto.
Durante il primo anno condividevo una camera con il pittore Primo Costa, uno degli allievi prediletti di Varoli, che frequentava il quarto anno; viveva con noi anche un ragazzo di Cesena, Antonio Andreucci, che poi proseguì gli studi alla Facoltà di Architettura di Firenze. Ricordo che la proprietaria era una signora molto religiosa che tutte le mattine ci chiedeva se avevamo detto le orazioni e fatto il segno della croce!
Essendo molto timido preferivo le materie pratiche a quelle teoriche, in cui bisognava parlare invece che fare. Il terzo anno la professoressa di italiano mi rimandò a ottobre e disse a mio padre che non ero maturo. Io mi offesi e non mi presentai all'esame, così ho dovuto ripetere l'anno. Il primo giorno di scuola nella nuova classe, con i nuovi compagni, mi ero barricato dietro due file di sgabelli per disegnare con un carbone il fondoschiena del cavallo di gesso del Canova. Luigi Varoli mi raggiunse scavalcando gli sgabelli, prese in mano il disegno e lo sollevò esclamando, evidentemente in polemica con la professoressa di italiano che mi aveva rimandato: "Ma Guidi è maturo!"... In quello stesso periodo Varoli purtroppo si ammalò e fu sostituito da Giulio Ruffini. Un giorno, alla fine dell'anno, venne a salutarci, ma io non ero in classe. Mi fece cercare dai miei compagni che però non riuscirono a trovarmi. Spesso, infatti, scappavo dall'aula saltando dalla finestra, attraversavo il cortile e mi nascondevo alla Biblioteca Classense per leggere i libri di storia dell'arte, sia quella antica e del Rinascimento che quella contemporanea. Poco tempo dopo Varoli morì. Mi è sempre rimasto il rimpianto di non averlo salutato.

Dici spesso che i tuoi maestri sono stati i pittori italiani del Rinascimento e i fotografi americani del Novecento, ma anche i mosaicisti bizantini che hanno lavorato ai monumenti ravennati e Michelangelo Antonioni, che proprio a Ravenna ha girato il suo primo film a colori, Deserto Rosso. In mostra ci sono diverse fotografie di Ravenna, dai capanni e le facciate dei primi anni Settanta alle fotografie del porto e della zona industriale dove hai lavorato a lungo negli anni Novanta e Duemila. Cosa ti interessa di questi luoghi? Come mai hai scelto di fotografarli?
Dopo il liceo mi iscrissi allo IUAV di Venezia, incoraggiato dal professore di disegno geometrico, Alberto Fabbri, e spinto da un grande desiderio di costruire che avevo probabilmente ereditato da mio padre e mio nonno, che facevano i falegnami. Da allora ho sempre vissuto e lavorato in Veneto, tra Treviso e Venezia, dove andavo con la corriera oppure in autostop, camminando a lungo, e passando proprio da Ravenna. I capanni e le facciate li ho fotografati nei giri della domenica che facevo con Marta, quando ci siamo fidanzati. Avevo visto le fotografie di Walker Evans e, da studente di architettura, avevo scoperto grazie a Bruno Zevi l'architettura organica e vernacolare. L'architettura spontanea e la modalità dell'autocostruzione mi interessava molto, e mi interessa tuttora. Ai tempi del liceo, in un libro di Matteo Marangoni intitolato Saper Vedere (Garzanti, Milano, 1944, settima edizione), che ci era stato consigliato dal professore di storia dell'arte, Antonio Fantucci, avevo sottolineato questo passo: "Se certi grandiosi piani edilizi si possono almeno scusare con la necessità della vita d'oggi e dell'igiene pubblica, quel che non si può scusare è la mania del malinteso, inutile ammodernamento come quello, per esempio, delle facciate di tante vecchie case; le quali, pur non avendo un valore architettonico, hanno un grande significato evocativo del passato".
A proposito di Antonioni, ho visto i suoi film quando ero già a Venezia. Ricordo soprattutto Il grido, un film tragico, mi era piaciuto molto e forse tuttora è il film di Antonioni che preferisco, perché è un viaggio circolare, in cui il personaggio si sposta da un posto all'altro, senza meta. Tutto è un pretesto per vedere dei luoghi, ma con il senso di una continua e vertiginosa perdita. Deserto rosso, girato diversi anni dopo, è un film più articolato, più sorvegliato, meno tragico, forse anche per via del colore. Mentre Il grido è molto legato al neorealismo, Deserto Rosso è espressione di un approccio nuovo a un mondo nuovo, moderno, con individui e paesaggi completamente trasformati da questa modernità. Credo che il cinema di Antonioni mi abbia influenzato sia per un aspetto che per l'altro.
Quando ero ragazzo andavo con gli amici a rubare i cocomeri in un campo vicino al circolo della parrocchia. Poi, in mezzo a quel campo, costruirono una strada. Fu per me un grande dispiacere perché sentii che avevano rotto un equilibrio. Forse da questo episodio sono scaturite alcune fotografie che potrebbero essere intese come una denuncia, ma devo dire che questa non è mai la mia prima intenzione. Mi interessa poco fare una critica alla civiltà, mi interessa soprattutto la registrazione del passare del tempo nelle cose, l'effimero. D'altra parte anche i Becher hanno fotografato le industrie come grandi opere dell'uomo, immortalandole come fossero delle sculture; e Gropius pensava che la fabbrica fosse più bella del palazzo... La fabbrica dell'Ottocento era nata con una funzione, ma allo stesso tempo aveva qualcosa di mistico, come una chiesa. Prima della zona industriale di Ravenna avevo già fotografato quella di Marghera, in un momento in cui tutto era ormai in crisi. Per me l'aspetto importante e visibile di questa crisi era ancora una volta il tempo. Il passare del tempo, la trasformazione, la metamorfosi delle cose. Di tutte le cose: industria, casa, albero, fiume, strada, uomo, bambino...

Alcune tue fotografie sono state eseguite nella  vecchia e nell'attuale sede dell'Accademia di Belle Arti di Ravenna, dove insegni dal 1989. Puoi fare un bilancio di questi 25 anni?
Ho imparato molte cose, soprattutto dagli studenti, che per me erano e sono una sorta di prolungamento e catalizzazione di energia. Purtroppo la fotografia, e soprattutto le potenzialità formative attraverso questa disciplina, non erano comprese e valorizzate abbastanza in ambito istituzionale, non solo a Ravenna ma in generale in Italia. Penso che questo sia stato una grave mancanza. Molti studenti, nonostante le potenzialità, non hanno continuato a fotografare dopo l'Accademia perché non trovavano riscontri all'esterno. Spesso succede ancora, anche se sembra che qualcosa stia cambiando.


Speciale Fotografia e Musei - pag. 12 [2014 - N.51]

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