Multidisciplinarietà e costruzione di network

Intervista a Fabio Donato, ordinario di Economia aziendale e Direttore del MuSeC presso l'Università di Ferrara

Romina Pirraglia - Sistema Museale Provincia di Ravenna

Abbiamo posto alcune domande al prof. Donato in qualità di Rappresentante italiano nel Comitato di Programma di Horizon 2020.

Quali sono le opportunità "sprecate" dall'Italia in relazione ai Fondi europei per la cultura?
I dati del passato ci dicono che nel VII Programma quadro (2007-2013), l'Italia ogni cento euro che ha messo in Europa ne ha portati a casa solo sessanta. Non solo; se prendiamo non i fondi di eccellenza a gestione diretta, ma quelli più 'facili' a gestione indiretta, per i quali non c'è competizione con altri Paesi in quanto ci sono già stati assegnati, i dati attuali indicano che a livello nazionale lo speso è circa il 35% mentre l'impegnato è circa il 50%. È vero che c'è la possibilità di continuare a spenderli ancora per un anno e mezzo, però è chiaro che, bene che andrà, riusciremo ad arrivare al massimo al 60%.
Questo dato ci fa riflettere su una serie di cose. Innanzitutto, che noi siamo "europeisti" a parole, almeno a vedere i dati sull'affluenza alle elezioni europee. Al di là del singolo voto, in Italia la partecipazione e dunque l'interesse nei confronti dell'Europa è molto più forte rispetto agli altri Paesi: tolti Belgio e Lussemburgo, dove è obbligatorio andare a votare altrimenti si viene multati, il nostro Paese è in assoluto quello con l'affluenza più alta.
Se a parole siamo così attenti all'Europa, in realtà siamo piuttosto assenti nei processi decisionali europei, così come nella capacità di intervenire nelle progettualità europee. Infatti se guardiamo al grado di incidenza dell'Italia nelle decisioni europee, vediamo che siamo scarsamente presenti e lo siamo ancora meno se andiamo a guardare il grado di partecipazione e soprattutto di successo nei progetti europei.
Perchè accade questo? Grazie a questo nuovo ruolo che ricopro un'idea me la sono fatta. Primo: per portare a casa i temi di interesse italiano bisogna battagliare e quindi ci vuole qualcuno che vada nelle sedi europee, che conosca bene l'inglese, le dinamiche istituzionali europee e le regole del gioco, e porti a casa i risultati. Vi faccio un esempio: in relazione alla call sul Mediterraneo, se fosse passata l'idea di alcuni Paesi, piuttosto che essere sul Mediterraneo il bando sarebbe stato sull'Oceano Atlantico, ed è chiaro che quel progetto l'Italia l'avrebbe perso in partenza. Se noi italiani abbiamo competenze sul cultural heritage ma specifiche call su questo tema non ci sono, è chiaro che non riusciamo a sfruttare tutte le nostre competenze.
Inoltre c'è un'altra questione. Noi siamo abituati a fare i progetti europei come ci piace. Purtroppo non funziona così: i progetti europei bisogna farli come piace alla Commissione Europea, ovvero i progetti vanno scritti all'interno delle policy europee, il che presupppone di conoscere molto bene le policy europee e i documenti relativi. Infine, noi abbiamo ancora grandi difficoltà nelle tecnicità, cioè quando si redige un progetto europeo c'è una precisa liturgia da seguire, cosa che noi tendiamo a non fare.

Dall'Unione Europea vengono suggerimenti per una riforma degli attuali modelli di governance e di management rivelatisi, come lei evidenzia nelle sue pubblicazioni, inadeguati alla gestione del patrimonio culturale italiano?
No, da loro non viene nessuna proposta, ma dirò di più. Il problema di non vincere progetti europei non è solo quello di non portare a casa i soldi, ma ce ne è un altro che forse è ancora più importante, e cioè quello di non contribuire alla costruzione di un pensiero europeo. Perchè attraverso la progettualità europea si individuano quali sono i percorsi di riferimento a livello europeo.
Ciò si lega alla prima domanda, perchè la nostra assenza in Europa fa sì che i temi di riferimento siano non quelli italiani ma quelli dei Paesi più forti nel dibattito europeo. Più forti non perchè abbiano idee migliori, ma perchè sono più presenti e maggiormente dentro alle regole del gioco. Questi Paesi sono prevalentemente quelli del centro e nord Europa e non stupirà che in questi Paesi il dibattito sul cultural heritage sia molto più tenue rispetto a quanto lo sia in Italia.
Il grande tema a livello europeo in questo momento non è su management e governance del cultural heritage ma è su Creative Europe, cioè sul tema della creatività. Ciò dipende dal fatto che soprattutto nel nord Europa il dibattito non è sulla conservazione, valorizzazione e comunicazione del patrimonio culturale (di cui loro dispongono molto meno di noi), ma sulla produzione culturale e creativa, che va nella logica soprattutto dell'arte contemporanea che non a caso da loro è più forte. Il che non significa che in Italia non occorra sviluppare l'arte contemporanea, al contrario. Ciò che dico spesso infatti è che bisognerebbe far sì che il cultural heritage fosse esso stesso uno strumento di produzione d'arte contemporanea: legare il passato con il presente per costruire il futuro.
Quindi la risposta è che il dibattito è molto tenue, perchè il vero dibattito è su questioni che sono prevalenti nel centro e nord Europa, ovvero sul tema della creatività. Però bisogna fare attenzione, perchè anche colleghi internazionali ritengono che sia inutile che l'Italia sviluppi un dibattito sulla creatività in quanto è naturalmente una nazione della creatività. Per il nostro Paese il dibattito deve incentrarsi su come incanalare la creatività per produrre qualcosa: produzione di beni artistici, di beni consumo, introduzione di servizi innovativi, di forme inclusione sociale. Il nostro grande tema dunque non è la creatività in sé, ma come riuscire a canalizzare, a trasformare questa creatività in qualche cosa che abbia un valore sociale di welfare o un valore imprenditoriale di mercato e di occupazione.

In che modo i fondi europei per la cultura potrebbero contribuire alle riforme strutturali da lei ritenute necessarie per fronteggiare la crisi altrettanto strutturale in atto dal 2008?
Se consideriamo i fondi diretti, cioè quelli che vengono gestiti dall'Unione Europea, le due grandi aree sono Horizon 2020 (ricerca e innovazione) e Creative Europe, programma molto più piccolo in termini finanziari ma molto più focalizzato sulla cultura che è appunto il tema della Directorate General for Education and Culture.
Devo dire che in entrambi si ritrovano sempre due elementi straordinariamente forti: il tema della multidisciplinarietà e il tema della costruzione di network (che possono essere di tipo internazionale ma anche di tipo locale). A me pare molto chiaro che ci sia una spinta a livello europeo verso logiche di multidisciplinarietà e verso logiche di tipo "meso", cioè di creazione di sistemi territoriali che possono essere sistemi culturali territoriali o sistemi di altro tipo.
Al di là della realtà di Ravenna, che oggettivamente è più avanti di tutti in Italia, da noi questa spinta non c'è. La sensibilità italiana è tutta diversa, è "micro", cioè ognuno fa il suo, e monodisciplinare. Per cui se io sono uno storico dell'arte del Settecento, non voglio avere niente a che fare con te che sei uno storico dell'arte dell'Ottocento, figuriamoci con un economista, con un sociologo o con un esperto di comunicazione.
Quindi il grande tema è: innanzitutto, contaminiamoci vicendevolmente; secondo, costruiamo quei legami tra patrimonio culturale che sono i legami propri del nostro patrimonio culturale. La consuetudine di presentare e interpretare il nostro patrimonio come se il singolo patrimonio di una singola istituzione culturale fosse diverso da quello di un'altra istituzione culturale, l'abbiamo creata noi con la nostra sovrastruttura istituzionale, burocratica e organizzativa. Ma il patrimonio culturale è unitario, è unico, siamo noi che l'abbiamo diviso. Quindi l'obiettivo è tornare all'essenza, ritornare alle origini.

L'ideazione di progetti da candidare a bandi nazionali e internazionali da parte di una realtà come quella del Sistema Museale della Provincia di Ravenna potrebbe configurarsi come una buona pratica condotta nell'ambito del livello organizzativo "meso" del modello manageriale "multi-scala" a cui ha accennato?
Rispondo con grande sincerità e schiettezza. Su questo punto il mio ragionamento è un altro, ed è quello di andare per gradi. Se mi passate una metafora calcistica, visto che siamo in periodo di Mondiali, prima di cercare di vincere la Champions League cerchiamo di vincere il Campionato italiano. Voglio dire che per la costruzione di un sistema culturale territoriale forse il luogo ideale sono i Fondi strutturali regionali.
Faccio un esempio: i temi della partecipazione, del patrimonio culturale unitario, della gestione a rete, del partenariato pubblico e privato, della cultura che genera occupazione giovanile, dei progetti europei etc., altrove sono scontati. Non possiamo dunque pensare che il progetto di Ravenna, che è un progetto di eccellenza italiana, sia anche un progetto di eccellenza europea: oggettivamente non è vero. Pertanto ritengo che occorra  innanzitutto passare dai fondi strutturali, che in ogni caso ci sono e vanno solo progettati, riguardo al cui utilizzo comunque l'Emilia-Romagna eccelle rispetto al resto del Paese. Prima vinciamo il Campionato italiano, ovvero utilizziamo i fondi strutturali per realizzare qualcosa che sia di riferimento nazionale, poi realizziamo un progetto europeo con gli altri Paesi che hanno sistemi strutturati, avendo un'idea innovativa, e allora andiamo a vincere la Champions League. Fuor di metafora, andiamo a vincere un progetto di Horizon 2020.

A proposito di quest'ultimo, nei progetti del nuovo settennio i musei sembrano potere essere i candidati ideali per contribuire alla resa delle nostre società "più inclusive, riflessive e innovative", in risposta proprio ad alcuni obiettivi specifici di Horizon 2020. È d'accordo?
La grande novità di Horizon 2020 è che, mentre nel VII Programma quadro i fondi e quindi i progetti erano rivolti a università e centri di ricerca - tutto ciò che era diverso da questi ambiti in qualche modo era quasi fuorviante -, con Horizon 2020 la logica è capovolta. Certamente devono essere progetti con contenuto di eccellenza, di innovazione e di ricerca, ma si richiede espressamente che assieme ai soggetti della ricerca ci siano anche soggetti istituzionali e soggetti del settore economico-produttivo.
Allora i musei qui dentro ci rientrano perfettamente. La questione è se il museo interpreta Horizon 2020 semplicemente come uno strumento per raccimolare qualche soldo - e allora sbaglia - o se lo interpreta come lo strumento per avviare quelle attività di ricerca, di conoscenza, di sperimentazione che dovrebbero essere alla base dell'attività di ogni museo. Perchè noi continuiamo a pensare al museo come a un luogo di mera esposizione e di mera conservazione, mentre i musei dovrebbero essere innanzitutto luoghi di produzione di conoscenza e di produzione culturale. Quindi il loro coinvolgimento avrà senso non tanto se Horizon 2020 lo permette - perchè lo permette - ma se i nostri musei riusciranno a capire quale può essere il loro ruolo in tale contesto.


Speciale Progetti europei per i musei 2014-2020 - pag. 11 [2014 - N.50]

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