A morte i musei!

Cent'anni fa il patrimonio finì per essere tutelato proprio in virtù di una sensibilità - mai esplicitata - che si respirava in epoca futurista

Roberto Balzani - Docente di Storia contemporanea, Università di Bologna - Ravenna

Trattare di conservazione nel contesto di un fascicolo dedicato al Futurismo può apparire una scelta ardita o forzata, a seconda dei punti di vista.
 Dalla prospettiva strettamente filologica, Marinetti non ha molto a che vedere col patrimonio, almeno con quello tradizionale delle "antichità e belle arti", così com'era canonizzato nei primi decenni del secolo. È nota, viceversa, la sua idiosincrasia verso tutto ciò che sapesse di passatismo, a partire dai musei: un'opzione nel segno della rottura radicale col codice classicista, che non a caso aveva ispirato per contrasto, fra il 1902 e il 1909, il tentativo d'impedire con una legislazione assai avanzata il depauperamento dell'Italia, "cava" di capolavori.
Erano state proprio le avanguardie a sollecitare, presso gli osservatori e gli appassionati, l'urgenza di una grande operazione di salvataggio: ciò che i redattori del "Giornale d'Italia" e di "Emporium" osservavano nelle esposizioni di artisti contemporanei provocava un tale sgomento da indurre la sensazione che una lunga stagione culturale stesse volgendo al termine. Da Angeli a Ojetti, le voci che si erano levate in difesa della tradizione artistica del paese apparivano veementi e concitate, come se la minaccia di una decadenza incombente avesse l'effetto di rendere più concreta la consueta retorica ispirata alla damnatio temporum. Esiste un nesso ben preciso, quindi, fra gli obiettivi di salvaguardia promossi da un vasto ceto intellettuale e trasformatisi in un'imponente petizione giunta fino al tavolo del presidente del Senato nel 1908, da un lato, e, dall'altro, il mondo apparentemente liminare, marginale e antiaccademico della sperimentazione artistica, al quale il Futurismo, nell'età dei manifesti e delle riviste, avrebbe dato dignità di movimento.
Non già una relazione diretta, quanto piuttosto l'opposta reazione a una percezione comune di cambiamento di clima: come se i punti fermi dei linguaggi estetici e delle cronologie fossero entrati in una crisi irreversibile, minati da un'opera di demolizione paragonabile a quella che la teoria della relatività, nel medesimo torno d'anni, operava nel campo delle scienze fisiche. Il patrimonio incarnato nei "beni" e soprattutto nelle "cose" - così recitava l'art. 1 della L. 364/1909 - sembrava non sfuggire alla più generale contestazione delle genealogie accertate dai procedimenti positivi, per subire uno sguardo dissacrante ora benevolmente ironico (alla Gozzano), ora dettato da una lucida volontà di liquidazione (nei futuristi). E ciò mentre la classe politica lo elevava finalmente a ricettacolo di una parte cospicua dell'identità nazionale. Il 1909 fu dunque un anno contraddittorio: l'avanguardia andò in un senso, il Parlamento, sigillando la prima grande legge sul patrimonio, in un altro.
 Strana contraddizione, che la dice lunga sulla frattura culturale apertasi in Europa, una faglia della quale passava pure per la "vecchia" Italia, intenta a elevare improbabili barriere di fronte ad un nemico mobile e vivace, che presto avrebbe attratto a sé una buona porzione della gioventù intellettuale. Se la conservazione dei beni culturali fosse stata classificazione, semplice gerarchia del bello, il destino del patrimonio sarebbe forse stato segnato. Ma anche allora, e benché la legge non lo dicesse esplicitamente, c'era dell'altro: l'idea diffusa, ad esempio, che i processi di patrimonializzazione delle "cose" d'interesse archeologico, storico o artistico non fossero solo il frutto di una mera registrazione del valore intrinseco dell'oggetto, quanto la sintesi di un investimento culturale in qualche modo sociale e collettivo, che talvolta non aveva nulla a che vedere con l'estetica.
Il patrimonio, così come ci appare oggi, nella sua materialità e nella sua immaterialità, finì per essere difeso proprio in virtù di una sensibilità non scritta e non esplicitata, che si respirava nell'ambiente e nel contesto. In una certo senso, agli stessi futuristi, alla ricerca della provocazione e della dissacrazione antipassatista, faceva gioco descrivere le "antichità e le belle arti" secondo uno schema canonico: sfuggiva tuttavia anche a loro la percezione che la temperie cui essi dovevano la propria forza s'era insinuata fra le carte degli eruditi, trasformandoli - da difensori un po' rétro del canone aureo del classicismo - in dinamici componenti delle "brigate" degli "amici dei monumenti", con tanto di bicicletta, di kodak e di calzoni alla zuava.
Come al solito, la realtà profonda appare più sorprendente della generalizzazione superficiale: un motivo in più per accertarla, nell'anno del duplice centenario.

Contributi e riflessioni - pag. 16 [2009 - N.34]

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