Competizione vs. cooperazione

Un' analisi dei profili economici delle reti museali presentata in occasione del convegno "Reti e sistemi museali in Italia" organizzato a Mantova il 19 maggio 2008 da Icom Italia

Michele Trimarchi - Professore di Economia della Cultura Università di Catanzaro

Il fenomeno della aggregazioni territoriali dei musei, recente ma intensamente percepito e analizzato nel nostro Paese, può essere interpretato da molteplici prospettive. Certamente può apparire paradossale che in un quadro istituzionale tuttora caratterizzato da un rigido centralismo e dalla totale assenza di parametri in base ai quali tarare il sostegno finanziario del settore, i musei attivino reticoli di cooperazione nel territorio. A ben guardare, non sono pochi i casi in cui reti, distretti e sistemi (comunque li si voglia definire sul piano formale) sono utilizzati per aggirare gli spigoli di una legislazione sempre più obsoleta: il primo sistema museale così definito, quello umbro, nacque tra gli altri motivi come escamotage per poter reclutare risorse umane facendo prevalere l'intuitus personae sulla par condicio formale, e per poterle impiegare secondo i bisogni contingenti; ci si accorse tutti che un uso razionale del lavoro nei musei avrebbe presupposto un elevato grado di flessibilità, cosa che regole e accordi vigenti impediscono del tutto.
Da allora reti (o network per gli xenofoni), sistemi, distretti e addirittura musei diffusi occupano l'immaginario istituzionale a livello di Regioni, Province e Comuni. Sul versante statale, i tentativi di aggregazione istituzionale - dal successo molto parziale rispetto alle aspettative - rimangono comunque nell'alveo delle eccezioni. La materia è complessa, e sarebbe semplicistico ritenere che i musei italiani possano abbandonare d'un fiato un paradigma di riferimento consolidato e condiviso che li continua a considerare custodi e testimoni anziché produttori e innovatori. La normativa sulla valorizzazione la dice lunga sulla resistenza binaria a intaccare anche solo concettualmente il core business dei musei, relegando ai margini della loro attività istituzionale l'attivazione di canali relazionali con il pubblico. Valorizzazione è una parola brutta, esclusivamente italiana, brutale nel suo richiamo implicito al ricavo e asfittica nella pretesa di separare in modo binario la salvaguardia materiale e cognitiva dell'offerta culturale da una parte, e la sua volgarizzazione dall'altra.
Incidere senza una strategia di lungo periodo su un terreno fragile e complesso ha finito così per accentuarne gli elementi critici. La percezione - infondata, ma ampiamente condivisa - di una concorrenza tra il settore dei musei e la cosiddetta industria del tempo libero, insieme al convincimento che anche i musei si trovino in una situazione di reciproca e accesa concorrenza, sono stati aggravati dall'inedita competizione (quanto meno, dal confronto guardingo) tra pubblico e privato, laddove il pubblico si è sentito scavalcato e utilizzato per i guadagni di gestori privati meno esperti e poco legittimati, e il privato ha voluto ricoprire il ruolo di cireneo lamentando incomprensioni ma preferendo una libertà senza interferenze e complicità.
Nel frattempo il pubblico continuava a evolvere, anche grazie al confronto penalizzante con le esperienze all'estero; e si affacciava con decisione un pubblico nuovo, goffo quanto si vuole ma fresco e convinto, che in mancanza di progetti strategici sull'accesso finiva per intasare le mostre blockbuster, le notti bianche e simili manifestazioni mordi-e-fuggi.
Su questo coagulo di sviste si può fare qualche commento. Innanzitutto, ritenere che i musei si trovino in concorrenza nei confronti di televisione, cinema, internet e quant'altro è un semplicissimo errore. La competizione presuppone e richiede omogeneità dei prodotti e fungibilità delle scelte. Siamo all'estremo opposto dello spettro, dal momento che il patrimonio museale è composto - con tutta evidenza - da prodotti eterogenei e inconfrontabili, e che le scelte dei fruitori non rispondono a valutazioni prezzo-qualità, ma all'urgenza di visitare "quel" museo, o "quella" mostra. Paradossalmente, il fruitore onnivoro e poco selettivo si trova più facilmente tra le coorti stendhaliane che non tra i contemporanei emergenti. Né si può dire che il museo subisca il successo della televisione: tutti i visitatori guardano anche la televisione, e ciò non gli impedisce di amare la cultura.
Allo stesso modo, ragionare di concorrenza tra i musei ignora un dato fondamentale: ciascun fruitore culturale non frequenta - poco o molto - una sola istituzione, in quanto la sua domanda è rivolta ai contenuti dell'offerta, dovunque essi siano resi disponibili. Anzi, la teoria economica dell'addiction, secondo cui il ripetersi dell'esperienza culturale conduce il consumatore a uno stato di vera e propria "dipendenza" e dunque lo induce a formulare una domanda crescente, si riferisce al sistema dell'offerta culturale nel suo complesso; quanto più un visitatore frequenta gli altri musei, tanto è più probabile che a un certo punto della sua esperienza finisca per entrare anche nel mio. Senza dimenticare che in questo modo il significato della qualità si sposta dalla certificazione convenzionale di un posizionamento di rilevanza verso il grado di capacità dialogica e di stimolo cognitivo che l'offerta può fornire al visitatore. Non sono tanto la bellezza e l'importanza, asseverate dalla critica maggioritaria, a rilevare, quanto le modalità con cui l'offerta culturale è organizzata in modo da fornire efficaci stimoli al fruitore.
Anche le relazioni tra pubblico e privato appaiono - nel contesto attuale - discutibili e infertili. Più che prestare attenzione alle forme contrattuali o allo status giuridico del proprietario o del gestore, sarebbe necessario rivedere radicalmente processi e meccanismi interni al settore dei musei, in modo da identificare quelli che richiedono un approccio pubblicistico (ossia improntato all'imparzialità, alla mancanza di lucro, alla realizzazione di garanzie), e quelli per i quali è preferibile un approccio privatistico (ossia snello e flessibile, capace di sintonizzarsi alle esigenze contingenti, attento alla responsabilità gestionale e finanziaria).
Non è detto che tali qualità debbano attribuirsi in modo binario ai rispettivi settori: al contrario, sarebbe il caso che esse li innervassero entrambi secondo le convenienze e i bisogni. Deburocratizzare le procedure e i contratti di lavoro nel settore museale pubblico, coinvolgere i privati nella progettazione e nell'organizzazione dell'offerta, spingere entrambi ad attivare scambi e investimenti nel territorio, sono necessità ormai indifferibili cui non si può rispondere con l'ennesima griglia regolamentare.
Solo in un quadro strategico, coerente e privo di pregiudizi reti e sistemi museali possono essere utilmente posti al servizio del benessere collettivo. Ricordando che esso passa per l'identità, il senso di appartenenza e la qualità della vita della comunità locale, prima e più importante destinataria dell'offerta culturale e del suo molteplice valore.

Contributi e riflessioni - pag. 18 [2008 - N.32]

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