Raccontare i musei

Si è svolta a Torino una Conferenza Internazionale sul tema dello story telling come possibile strumento pedagogico innovativo da utilizzare al museo

Alba Trombini - Consulente e docente di educazione museale

Può la narrazione divenire a pieno titolo strategia condivisa di didattica museale? In che modo? Con quali tecnologie di supporto? E soprattutto, con quali cautele e di quali competenze si deve attrezzare l’operatore museale – la voce narrante – per utilizzarla al meglio e con pubblici differenti?
Invitata a portare un contributo alla Conferenza Internazionale Raccontare i musei – organizzata a Torino il 4 e il 5 febbraio scorso da Fondazione Fitzcarraldo, Regione Piemonte e HoldenArt – per due giorni ho avuto l’opportunità assieme a colleghi provenienti da tutta Italia e da 28 paesi d’oltre confine di riflettere sul tema della narrazione (o story telling, secondo la definizione adottata in ambito europeo) come possibile strumento pedagogico innovativo da utilizzare al museo.
Per motivi di spazio non mi soffermerò sugli interventi più tecnici (analisi dello status europeo su formazione e competenze professionali di operatori museali), i cui abstract sono in visione sul sito della Fondazione Fitzcarraldo, ma proporrò soltanto un accenno a tre delle risposte più interessanti e provocatorie fornite dai relatori chiamati a condividere pensiero e ricerca sul campo.
Le relazioni sono cominciate con una serie di moniti precisi, a partire da quello del professor Francesco Antinucci (scienziato cognitivo dell’Istituto di Psicologia del CNR) che ha sottolineato con forza la necessità di non farsi intrappolare dalla moda emergente del museo-spettacolo in cui è soltanto il livello emotivo a essere sollecitato. Essenziale per poter definire un percorso educativo come tale, è l’accuratezza nel ristabilire la comunicazione intrinseca interrotta fra l’opera e chi osserva. Si tratta sì di una comunicazione spezzata – dal tempo e dalla perdita del contesto originario – ma sempre e comunque preesistente a tutte le nostre possibili interpretazioni; “tutto ciò che facciamo al di fuori di questo – afferma Antinucci – non è comunicazione, ma invenzione”. E il primo dovere di un allestimento “politicamente” corretto è quello di fornire al pubblico i codici d’accesso per ristabilire la vera comunicazione, non le elucubrazioni personali di curatori, educatori o direttori.
E sulle trappole insidiose quanto attraenti di un uso non corretto della pratica dell’interpretazione, ha messo in guardia anche Peter J. Howard (geografo e docente alla Bournemouth University, GB) sostenendo che il semplice fatto di essere vivace e stimolante non basta per definire un percorso museale come momento “culturalmente alto”. Howard considera il mettere in scena, il fare poesia, il togliere le didascalie… come performance, forma d’arte, e non altro. Per questo invita a ridurre al minimo non solo l’invadenza dell’interpretazione selvaggia, ma anche l’inevitabile selezione che questa pratica comporta nel momento in cui è obbligata a proporre una visione, una sola prospettiva, una singola storia.
Chi invece ha messo in luce gli aspetti positivi dell’utilizzo della narrazione come eccezionale metodologia educativa è stato Janusz Byszewski (curatore del Laboratorio di Educazione Creativa al Centro di Arte Contemporanea di Varsavia), educatore che inventa percorsi – con il supporto di artisti contemporanei – che pongono i singoli visitatori in uno stato di creatività pura. Ed è così che indipendentemente dal background culturale e sociale di provenienza il suo pubblico diviene co-creatore di cultura attiva in un contesto che l’autore definisce museo-forum. Per Byszewski il forum è un luogo museale in cui si raccolgono le storie, tutte; dove avviene l’intreccio fra storie personali e storie collettive.
Condivido nella loro essenza entrambi i punti di vista, solo in apparenza diametralmente opposti. Il problema forse non sta nello scegliere da che parte stare, ma nel riuscire a pensare al museo come un’entità capace di accogliere entrambe le prospettive e di esplicitare al pubblico la strategia scelta di volta in volta, con alto senso di responsabilità e altrettanta fiducia nella capacità dei destinatari di comprendere la diversa natura delle proposte educative offerte. Utilizzo spesso la tecnica del racconto di sé come tramite per rintracciare quel filo ideale che unisce i nostri musei personali e interiori ai musei veri e propri e cerco di farlo senza confondere le pertinenze e i confini degli uni e degli altri, stando bene attenta a condividere la filosofia che sta alla base della metodologia usata.

Appunti dai convegni - pag. 19 [2005 - N.22]

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